Ord. forense

ORD. FORENSE - Le azioni per il riconoscimento del credito dell'Avvocato e riflessi deontologici sul patto di quota lite.

Cagliari, la sella del diavolo

LE AZIONI PER IL RICONOSCIMENTO DEI COMPENSI PROFESSIONALI ALLA LUCE DELLE RECENTI MODIFICHE NORMATIVE. RIFLESSI DEONTOLOGICI

(relazione illustrata il 26.10.2012 dal Collega Giampaolo Manca, Avvocato del Foro di Cagliari, in occasione del Convegno "Dal preventivo al contratto scritto col cliente")

Il tema che mi è stato assegnato è particolarmente attuale ma voglio mettere le mani avanti per non essere alla fine di questo intervento, tacciato d’aver fatto la scoperta dell’acqua calda. Infatti, per quanto la suggestione del titolo stimoli la curiosità e l’attenzione degli uditori debbo preannunciarvi che non ho da proporvi cose nuove, ovvero, formule magiche o corsie preferenziali ai più sconosciute. Anzi, alla luce delle recenti novità normative che si sono succedute in questi mesi, paradossalmente, gli strumenti giudiziali volti al riconoscimento del credito professionale si sono ridotti, rispetto al passato.

Dall’esame dei decreti che si sono succeduti, salta agli occhi il fatto che  il riconoscimento del credito dell’avvocato attraverso l’esperimento del procedimento monitorio, alla luce del D.M. 140 che ha introdotti i famigerati “parametri” e della espressa abrogazione delle tariffe ex D.L. n.1/2012 convertito in legge n. 27/2012, esce notevolmente ridimensionato.

Infatti, i primi commenti in dottrina  evidenziano che il decreto legge abrogativo delle tariffe avente natura di norma speciale, ha di fatto, ex art. 15 delle preleggi, abrogato tacitamente una serie di disposizioni normative tra le quali:

alcune leggi come 1051 del 1957 di Determinazione degli onorari, diritti e indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali in materia civile, l’art. 1 della legge 536 del 1949 che disciplinava le Tariffe forensi in materia penale e stragiudiziale, numerosi articoli del Regio Decreto  n. 1578 del 1933, dell’art. 28 della legge 794 del 1942 che prevedeva la possibilità del ricorso al procedimento monitorio ed in particolare dell’art. 27 che prevedeva la possibilità per il cliente di richiedere al CdO di invitare l’avvocato alla presentazione della parcella una volta esaurito l’incarico.

Ma soprattutto, evidenzia la dottrina, vi sarebbe un‘abrogazione tacita dell’art. 2233 c.c. ultima parte del primo comma, degli artt. 633 c.p.c. in parte e 636 c.p.c., 637 c.p.c. co. 2 e 3.

La conseguenza dell’abrogazione tacita di queste disposizioni è che l’intero impianto del recupero crediti giudiziale dell’avvocato, in mancanza di contratto scritto col cliente che determini in modo preciso ed esaustivo il corrispettivo della prestazione professionale, ne esce completamente stravolto e ridimensionato.

Infatti, alla luce di questo stravolgimento normativo, l’organo giurisdizionale al quale viene richiesto il pagamento di un compenso professionale, in mancanza della prova di un valido contratto concluso col cliente che lo predetermini, deve procedere alla quantificazione delle prestazioni professionali rese dall’avvocato senza dover sentire “l’associazione professionale” rectius il CdO cui fa riferimento l’art. 2233 c.c..

Infatti, l’art. 1 del D.M. che ha introdotto i parametri pare ora prevedere una competenza del Giudice ormai svincolata da ogni altro criterio e/o controllo che non siano le disposizioni dello stesso provvedimento in esame.

Il comma 2 dell’art. 9 della legge abrogativa delle tariffe conforta questa interpretazione laddove stabilisce che la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale del compenso del professionista vada effettuata con riferimento ai parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, con ciò intendendo evidentemente rimettere solo al Giudice ogni decisione in merito.

Il comma 7 dell’art. 1 conferma questo convincimento laddove, con una precisazione che rende inutile, perché superflua la lettura dei successivi articoli e relative tabelle sancisce che: “ In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso sono vincolanti per liquidazione stessa”. Il Giudice, insomma, pare divenire l’unico soggetto in grado d’integrare con la propria determinazione volitiva, ampiamente discrezionale, il contenuto del contratto di mandato, fissando l’oggetto dell’obbligazione principale del cliente dell’avvocato.

Se così è in sede monitoria, l’avvocato perde quindi il privilegio probatorio di “provare” il proprio credito professionale (solo) mediante la produzione della parcella delle spese e prestazioni, munita della sua sottoscrizione e corredata dal parere di congruità del suo Ordine (come prevedeva l’art. 636 c.p.c.).

Allo stesso modo il CdO perde, o meglio, ha perso a sua volta il potere di scrutinare ai sensi degli artt. 2233 c.c. o 636 c.p.c. l’entità della prestazione del professionista pur nel quadro della compatibilità della parcella con il decoro e la dignità professionale. Ne consegue che, come indicato nella relazione al decreto in esame, “visto che la regola è divenuta quella del mercato, ripristinandosi la centralità dell’accordo già enucleabile dall’art. 2233 c.c.”, in mancanza di quest’ultimo l’avvocato dovrà sottostare alla discrezionale liquidazione giudiziale dei propri compensi senza poter contare  vuoi nel fatto che il Giudice debba sentire il competente CdO (come prima previsto dall’art. 2233 c.c.) vuoi nella possibilità, nel procedimento monitorio (ex artt. 633 e 636 c.p.c.) di indirizzare e confortare tale potere con la sua parcella  previamente opinata dallo stesso CdO.

Le conseguenze, sia sul piano sostanziale che processuale, non sono di poco conto.

Nessun valore (ancorché provvisorio per la sola fase monitoria) di prova legale di tutte le spese e prestazioni professionali specificamente elencate avrà quindi più la dichiarazione unilaterale del professionista creditore, documentata nella parcella sottoscritta.

Ora che le Tariffe sono state abrogate l’avvocato non sarà più esonerato dall’onere di provare per iscritto (altrimenti che con la mera produzione della parcella) il suo credito, come prevede per ogni altro creditore, l’art. 633 n. 1 c.p.c..

Il legale che aspiri ad ottenere un provvedimento monitorio dovrà quindi d’ora innanzi, in luogo della parcella e del parere di congruità, allegare  alla domanda d’ingiunzione un documento scritto avente efficacia probatoria secondo le regole del codice civile per provare il mandato ricevuto, l’attività espletata e la pattuizione sull’entità del relativo compenso.

Conseguentemente, abrogate le Tariffe, poiché i parametri appaiono destinati solo alla liquidazione operata da parte del Giudice, in mancanza di contratto con il cliente, il professionista ha perso il provvedimento dal quale derivare l’iniziale quantificazione del proprio compenso. Né, l’avvocato potrà ora fare riferimento, per basarvi la propria parcella, ai parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi per i professionisti come se questi fossero di fatto succeduti alle previgenti tariffe forensi. In difetto di accordo scritto col cliente che li richiami, e soprattutto li quantifichi, tali parametri sono stati infatti concepiti esclusivamente per la limitata e residuale funzione indicata e per il loro utilizzo da parte del giudice e non possono considerarsi utilizzabili  dal legale, in sede monitoria, quale indicata misura del preteso compenso.

Ed allora, sempre nelle ipotesi di mancanza di contratto scritto o carenza del preventivo, quali strade rimangono all’avvocato che intenda far riconoscere giudizialmente il proprio compenso?

Rimangono la via ordinaria sulla quale non c’è bisogno di soffermarsi e l’art. 702 bis c.p.c. nel quale è confluito il procedimento speciale di volontaria giurisdizione previsto dalla legge 794 del 1942 che fino al settembre del 2011 poteva essere esperito per la liquidazione delle competenze giudiziali in materia civile. Era un rito esperibile limitatamente ai compensi maturati per l’attività giudiziale civile o attività transattiva ma strumentale a quella giudiziale, e consisteva nel ricorso al capo dell’Ufficio giudiziario presso il quale era stato esercitato il contenzioso. Il ricorso era di redazione assai semplice: in esso si chiedeva la liquidazione dei compensi maturati indicando ed allegando l’attività svolta oltre ad una  nota spese simile a quella giudiziale. Il Presidente, con decreto in calce al ricorso, fissava l’udienza per la comparizione delle parti personalmente in camera di consiglio nei termini ridotti di cui all’art. 645 ultimo comma c.p.c. al fine di esperire preliminarmente il tentativo di conciliazione e, ove questo sortiva esito negativo o non fosse possibile, decideva per la determinazione del compenso da liquidare. Non era obbligatorio il ministero di un difensore, le parti potevano quindi stare in giudizio personalmente. Se le parti raggiungevano in udienza un accordo, veniva redatto il verbale di conciliazione che costituiva titolo esecutivo.  Il Giudice, in ossequio all’art. 92 u.c. c.p.c. liquidava anche le spese del procedimento. Il procedimento si conclude con Ordinanza immediatamente esecutiva e non impugnabile come statuiva l’art. 29 della legge 749. Questa procedura camerale “agevolata”, come detto, vale solo per i compensi maturati nell’abito dell’attività giudiziale civile e non per quella stragiudiziale, infatti quando le competenze reclamate riguardava anche prestazioni stragiudiziali non dipendenti propriamente dall’attività processuali si era al di fuori dall’ambito della procedura speciale.

Il legislatore con il d. lgs 150/2011, in attuazione della delega avuta con la legge 69/2009 di riforma del processo civile, è intervenuto al fine di sfoltire l’eccessivo numero di riti esistenti facendo rientrare, fondamentalmente nei tre riti ordinario a cognizione piena, a cognizione sommaria ex art. 702 bis c.p.c. e rito del lavoro, un copioso numero di procedimenti. Con il 702 bis c.p.c. si poteva chiedere al Collegio la determinazione, la liquidazione dei diritti e onorari maturati nell’attività giudiziale allegando  copia degli atti di tutta l’attività svolta. Venendo meno le Tariffe forensi ed operando ora i parametri certamente ci si potrà rivolgere al Tribunale per la liquidazione dei compensi secondo i nuovi parametri seguendo il rito a cognizione sommaria, anche se rimane il dubbio per gli avvocati penalisti ed amministrativisti, ai quali era preclusa la possibilità di liquidazione dei compensi secondo la procedura di volontaria giurisdizione citata poc’anzi ex art. 28 l. 794/1942, della possibilità di esperire tale rito ove la richiesta sia limitata alla liquidazione ex lege 794/42 e non formulata come domanda di condanna di pagamento - il tutto, sempre in mancanza di contratto scritto -. Si tratterebbe di una disparità di trattamento difficilmente giustificabile che non avrebbe alcuna ragion d’essere e che limiterebbe il diritto di difesa dei penalisti ed amministrativisti al ricorso alla via ordinaria.

Un’altra grave conseguenza riguarda l’attività stragiudiziale - indifferentemente civile, penale o amministrativa - incautamente espletata senza contratto scritto e preventiva determinazione dei compensi. Rimane solo la via del giudizio ordinario di cognizione perché il ricorso di volontaria giurisdizione ora assorbito dall’art. 702 bis c.p.c., come detto, riguarda solo la determinazione del compenso maturato per l’attività processuale e non avendo più alcun valore il parere di congruità dell’Ordine non si potrà neppure esperire il ricorso per ingiunzione.

Ma anche nel giudiziale le azioni a difesa del credito si sono ridotte anche per gli avvocati amministrativisti e penalisti. Infatti, la giurisprudenza aveva già in passato statuito che la procedura camerale ex lege 794 era inapplicabile davanti al giudice amministrativo e quindi pure a quello penale (Consiglio di Stato 5.11.2005 n. 909). Il che è parso a molti palesemente incostituzionale.

Pur tuttavia, la Corte Costituzionale, investita della questione con la sentenza 96 dell’11.4.2008 l’ha dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 29 della legge 794 nella parte in cui non prevedeva l’esperimento di tale procedura per la liquidazione elle competenze maturate in un giudizio amministrativo. La Corte afferma a riguardo che “la scelta del legislatore di non estendere lo speciale rito camerale previsto dalle norme censurate ad altri tipi di controversie si rivela non irragionevole, perché imposto dalle regole generali di riparto delle giurisdizioni che impediscono una completa equiparazione, a tal fine, tra giudizi civili e giudizi amministrativi”.

RIFLESSI DEONTOLOGICI legati al diritto al compenso e sulle conseguenze che possono esservi in tema di patto di quota lite e determinazione dei compensi stabiliti in via consensuale.

Un ultimo argomento sul quale voglio soffermare la vostra attenzione riguarda la  distinzione tra patto di quota lite e contratto con il cliente perché, a ben vedere, non sono la stessa cosa.

Porto come esempio una decisione del CNF n.71 del 2009 relativa ad un iscritto dell’Ordine di Siracusa che spiega come non c’è patto di quota lite quando si predetermina in misura percentuale il compenso del professionista.

Il patto di quota lite è un’altra cosa. Intanto, è un contratto aleatorio e, in una valutazione oggettiva, è rappresentato da quell’accordo secondo cui il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza  dell’esito favorevole della lite.

Così è certamente un patto di quota lite quello nel quale in caso di esito sfavorevole si riconosce al professionista il mero rimborso delle spese non imponibili e forfettariamente una cifra minima a titolo di compenso, ovvero, addirittura si riconosce il compenso, fisso o a percentuale solo a condizione che venga raggiunto quel determinato risultato: si parla in tal caso di onorario di risultato. Quindi, questo accordo, si caratterizza per l’alea. Quando assumo l’incarico non so se ed in che misura potrò raggiungere il risultato che mi viene richiesto. Prendiamo ad esempio gli incarichi conferiti da una Curatela Fallimentare. Il Curatore da incarico al professionista di agire in revocatoria per ottenere l’annullamento di un contratto o di recuperare più crediti: non c’è assolutamente certezza di ottenere il risultato sperato. Da un lato la Curatela ha interesse a contenere i costi della procedura dall’altra il difensore può essere maggiormente incentivato nell’espletamento dell’incarico e nell’impegno da assumere  se sa che al raggiungimento e materiale recupero del credito avrà un compenso maggiore. Lo stesso discorso vale per una società di recupero crediti ma senza andare lontano è lo stesso strozzinaggio che in sede contrattuale fanno ormai da anni le banche e le assicurazioni che danno incarichi seriali ai loro difensori.

Quindi il patto di quota lite si distingue e si caratterizza per il rischio, perché il risultato da raggiungere non è certo non solo nel quantum ma soprattutto  neppure nell’an !

Diverso è il contratto con il cliente nel quale mi accordo sul compenso stabilito in misura fissa percentuale perché in questi casi il compenso dovuto è materialmente determinato: non è legato all’esito della causa, al raggiungimento del risultato. Pensiamo all’ipotesi assai frequente di un contratto nel quale ricevo l’incarico di assistere un cliente in materia di risarcimento danni da sinistro stradale. E più specificamente nell’ipotesi in cui, ad esempio, sia pacifica la responsabilità e si debba discutere solo di quantum. Qui non c’è alea, il rischio del mancato raggiungimento di un risultato non si trasferisce in capo al difensore che assiste la parte. Non c’è incertezza sul fatto che egli possa non vedersi riconosciuto in tutto o in parte il compenso, vi è piuttosto incertezza su quanto riuscirà a strappare in sede stragiudiziale ma maggiore sarà l’importo che riuscirà a strappare in via transattiva e maggiore sarà il suo compenso.

Ora, sapete bene che  a seguito della decretazione Bersani  nel 2006 è stato abolito il divieto del patto di quota lite. Allora si disse  che tale abrogazione avrebbe potuto avere conseguenze discutibili come il disinteresse degli avvocati  nei confronti di cause di scarso valore economico, oppure, l’accaparramento di quote consistenti del risarcimento ottenuto per il cliente, con grave compromissione dell’esercizio dei diritti degli utenti. Per questo il legislatore aveva disposto che entro un anno anche le disposizioni deontologiche, pena la loro nullità laddove incompatibili con la nuova normativa, venissero adeguate ai nuovi principi.

E difatti il CNF è intervenuto, tra l’altro, nel rivedere la formulazione dell’art. 45 del CD che oggi consente all’avvocato di “pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’art. 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’art. 2233 del c.c.”.

Questa proporzione rimane l’essenza del comportamento richiesto all’avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del suo compenso. Così il CNF nella decisione del 16.3.2010.

Ma anche la Cassazione a SSUU con la decisione n. 21585/2011 in tema di patto di quota lite

Ha ribadito questo principio:  “è illegittimo l’aumento del compenso richiesto in virtù del patto di quota lite, se sproporzionato rispetto all’impegno del professionista ovvero al risultato positivo della controversia. Infatti, il compenso in questione è un compenso aggiuntivo per l’esito della causa di risarcimento danni, compenso  che non deve essere tale da rappresentare un’ingiustificata falcidia, a favore del difensore,  dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite.

Il caso di specie riguardava un avvocato che condannato dall’Ordine di Trani a due mesi di sospensione aveva impugnato la decisione del CNF che gli aveva ridotto la sanzione a semplice censura. L’addebito contestato riguardava  la violazione dell’art. 45  del CD perché il professionista aveva concordato con il proprio assistito, in aggiunta al compenso previsto, un supplemento ulteriore, non contenuto in limiti ragionevoli né giustificato dal risultato conseguito, in riferimento alla domanda introduttiva. Anche le SSUU  analizzano il concetto di proporzionalità del corrispettivo ancorandolo a due parametri: 1) l’attività professionale svolta; 2) il risultato conseguito.

Sul punto il CNF nella decisione che vi ho citato la n. 71/2009 ha trattato proprio uno di questi casi nei quali gli assistiti si lamentavano del fatto che il proprio difensore in via stragiudiziale aveva fatto sottoscrivere loro un contratto con un compenso preventivamente determinato nella misura 20%  sul riscosso nei confronti dell’assicurazione oltre gli accessori di legge. Il CdO di Siracusa, facendo un po’ di confusione a dir la verità e ritenendo erroneamente trattarsi di patto di quota lite, aveva condannato il legale comminandogli la sanzione della censura per violazione dell’art. 43 del C.D. n. 2 per aver richiesto compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta. Il CNF evidenzia che nel caso specifico non si era in presenza di un patto di quota lite ma di un contratto nel quale era pattuito l’ammontare del compenso e che nello specifico non vi era stata violazione dei doveri di lealtà e correttezza  perché la determinazione della percentuale era stata liberamente sottoscritta dai clienti. Inoltre, al fine di valutare la sproporzione  del compenso rispetto all’attività svolta, il CNF afferma che occorre verificare in concreto caso per caso e che nello specifico per affermare che nella specie, l’aver ottenuto un risultato positivo per i clienti, in un arco temporale breve (90gg), avendo evitato l’instaurazione di una causa con tempi lunghi e costosi, l’aver favorito l’applicazione dei nuovi indirizzi deflattivi attraverso attività conciliative e l’essere stato l’unico professionista su cui si sarebbero gravate le responsabilità delle scelte ed in fine la continuità dell’impegno, ha reso certamente elevati i compensi richiesti ma non sproporzionati. Ha quindi prosciolto il legale.

Questo non significa che ogni contratto che prevede un compenso nella misura percentuale del 20% o anche in misura inferiore sia deontologicamente lecito: potrà esserlo sotto il profilo civilistico ma non necessariamente sotto quello disciplinare.

La decretazione Bersani ma a maggior ragione la decretazione del Governo Monti ha acuto il conflitto tra due norme primarie:

la legge ordinaria e la normativa deontologica, quest’ultima di natura consuetudinaria e di grado inferiore nella gerarchia  delle fonti. L’efficacia delle due categorie di norme non è sovrapponibile  nel senso che la legge ordinaria può derogare alla norma deontologica ed è efficace erga omnes; la norma deontologica, invece, è applicabile solo agli appartenenti alla categoria e per sua natura, può essere più restrittiva della norma ordinaria, in quanto tutela valori etici il cui ambito di applicazione può essere più ampio di quello della norma ordinaria.

Può dunque accedere che un atto o comportamento sia valido ed efficace  secondo la legge e sia fonte di diritto soggettivo, ma che possa essere giudicato scorretto sotto il profilo deontologico (e possa essere sanzionato come tale).

Così, da un lato, la pattuizione di un compenso mi si passi il termine “da elemosina” o di un compenso parametrato all’esito della lite, può essere valida tra difensore e cliente ed è fonte di obbligazione contrattuale se stipulata per iscritto; dall’altra può lasciare aperta la questione della valutazione del comportamento dell’avvocato sotto il profilo deontologico.

Il vento delle liberalizzazioni, già con Bersani pur incidendo su alcune norme non ha colpito il comma 2 dell’art. 2233 c.c. nel senso che continua a valere il principio dell’adeguatezza del compenso professionale all’importanza dell’opera  e al decoro della professione; come non ha modificato l’art. 1261 c.c. perché continua ad essere vietata la cessione anche parziale della res litigiosa.

Ancora la legge Bersani ha abrogato il divieto del patto di quota lite e la decretazione Monti ha abrogato di fatto le norme deontologiche in quanto incompatibili con le nuove norme regolamentari sulle professioni ma tali interventi non hanno colpito l’art. 19 del CD che sancisce il divieto di accaparramento di clientela a mezzo procacciatori, offrendo “vantaggi” o “con modi non conformi alla correttezza ed al decoro” e neppure l’art. 43 n. 2 del CD che sancisce il divieto di chiedere compensi “manifestamente sproporzionati all’attività svolta”.

Ed allora, in conclusione, a quali criteri, a quali norme, deve ispirarsi il difensore nell’assumere l’incarico e disciplinare la pattuizione del compenso, ovvero, nel parametrare il compenso?

Ebbene l’avvocato deve essere consapevole in primo luogo che la pattuizione di un compenso scritto consistente in una quota o percentuale della res litigiosa continua ad essere nulla ai sensi dell’art. 1261 c.c. (Divieto di cessione. Gli avvocati  non possono, neppure per interposta persona rendersi cessionari di diritti sui quali  è sorta contestazione  davanti all’autorità giudiziaria sotto pena di nullità e dei danni) e vietata dall’art. 45 del C.D. . Mi spiego meglio. Se ho assunto l’incarico di difendere il cliente per la rivendica di 5 posti auto il mio compenso, pena la violazione dell’art. 1261 c.c., non può consistere nella cessione di uno di quei posti auto. A tale violazione civilistica che rende il contratto nullo si aggiunge quella deontologica vietata dall’art. 45 (E’ consentito all’avvocato pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto di cui all’art. 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta).

Secondariamente che la pattuizione di un compenso ragguagliato ad una percentuale del valore della lite (o del risultato utile conseguito) oppure anche di un compenso particolarmente esiguo  è lecita fonte di obbligazione sotto il profilo civilistico. Inoltre che tuttavia, il comportamento dell’avvocato può essere valutato e sanzionato sotto il profilo deontologico, ove si accerti che leda i principi di decoro, dignità e correttezza . Da ciò consegue, in particolare, che la pattuizione di un compenso eccessivamente ridotto (pensiamo a 10 euro per una diffida) può integrare la violazione dell’art. 2233 c.c. comma 2 (in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e del decoro professionale) che trova rispondenza nell’art. 36 della Costituzione e nell’art. 5 CD (violazione del decoro professionale), sia dell’art. 43  n. II CD (richiesta di compenso sproporzionato all’attività svolta); dove la sproporzione può essere ravvisata anche per difetto, e non soltanto – come avviene di solito – per eccesso; e pertanto, può costituire un’ipotesi di accaparramento della clientela con “modi non conformi alla correttezza ed al decoro” ai sensi dell’art. 19 CD. Questo è aspetto che l’opinione pubblica ma anche e soprattutto chi continua a sostenere che siamo una casta non accetta o non vuol capire sull’assunto che in un sistema di libero mercato  non possono esservi dei vincoli nella determinazione del compenso.E’ difficile far capire che queste  condotte  costituiscono una pratica sleale, che sminuiscono l’importanza ed il ruolo dell’attività di assistenza e difesa, non remunerano il lavoro e la professionalità ma anzi la svilisce, la rende più povera perché non permette nel contempo, un servizio qualitativamente adeguato, di sostenere i costi della gestione di uno studio decoroso, di un’adeguata formazione e aggiornamento professionale, assoggettando il professionista a regole mercantili che non gli appartengono proprio perché egli non persegue le logiche del mercato che sono quelle del profitto ma la sua attività è svolta e deve essere finalizzata alla tutela dei diritti. Un giusto compenso, come la giusta liquidazione delle spese in caso di soccombenza (che i nuovi parametri hanno decisamente tradito!) appaiono indispensabili  per scongiurare da un lato il rischio di una sudditanza del professionista  nei confronti del cliente economicamente potente (cosa che va anche a discapito della sua autonomia e indipendenza) e dall’altra evitare che si alimenti il rischio di un conflitto d’interessi che possa condizionare o spingere il professionista, nell’espletamento dell’incarico, ad anteporre i propri interessi economici a quelli  del proprio assistito.

Avv. Giampaolo Manca,
Vice Presidente Onorario dell'Osservatorio del Foro di Cagliari

con il contributo e alcuni passi tratti da:
- "Il nuovo procedimento per la liquidazione del compenso dell'avvocato" di Fabio Cossignani  (LA PREVIDENZA FORENSE  n. 2 2012);
- "Avvocati e nuovi parametri: ridotti gli strumenti per recuperare il credito" di Andrea Bulgarelli su ALTALEX del 10.9.2012;
- Atti tratti dal Convegno "IL PROCESSO CIVILE A TRE RITI" Cagliari 3.11.2011 Aula Magna Corte D'Appello organizzato dall'Osservatorio del Foro di Cagliari pubblicato su www.osservatoriodelforodicagliari.it


 

 

 

 

 

 

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