Resp. sanitaria

MINORI - Riconoscimento giudiziale di paternità e parenti dell'altro genitore.

Scritto da Avv. Salvatore Frattallone. Pubblicato in RESPONSABILITÀ SANITARIA

TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TRIESTE

L'Art. 30, comma 3°, Cost., può avere concreta attuazione esclusivamente con il pieno riconoscimento della rilevanza giuridica, oltre che del rapporto genitore-figlio naturale, del rapporto figlio naturale con i parenti del genitore naturale, con la conseguenza che il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio produrrà effetti anche nei confronti dei parenti dei genitore che lo effettua e non solo dei confronti del genitore che lo riconosce.

TRIBUNALE PER I MINORENNI DI TRIESTE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Sentenza 22.12.2010

 

 

Il Tribunale per i Minorenni di Trieste, nelle persone dei Signori:

dott. Paolo Sceusa, Presidente;

dott. Angela Gianelli, Giudice relatore;

dott. Giuliana Marin, Componente privato;

dott. David Daris, Componente privato;

ha pronunciato la seguente:

sentenza

nel procedimento per il riconoscimento giudiziale di paternità sopra enumerato e promosso ai sensi dell’art.269 cod. civ. da:

*** ***, in nome e per conto del figlio minore *** ***, rappresentata e difesa per mandato a margine del ricorso introduttivo dall’avv.to Stefano Trabalza; ricorrente

avverso

*** e ***, entrambe rappresentate e difese per mandato a margine della comparsa di risposta dall’avv. Monica Zamparutti; resistenti

Conclusioni per la ricorrente:

Conclusioni per le resistenti:

Conclusioni per il P.M.:

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 31 ottobre 2008 ex art.269 cod. civ., la ricorrente instava l’intestato Tribunale per i Minorenni per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità naturale nell’interesse del figlio minore *** ed i provvedimenti utili al suo mantenimento, istruzione, educazione ed a tutela dei suoi interessi patrimoniali, nella misura ritenuta di giustizia.

Osservava, al riguardo, di avere intrattenuto una relazione sentimentale con *** dal settembre 2004 e di essere rimasta incinta nel torno di tempo dell’agosto 2007; spiegava altresì che mentre la coppia intendeva programmare il futuro matrimonio, il compagno perdeva tragicamente la vita in un sinistro stradale in data 22 dicembre 2007, evento cui le cronache locali davano grande risalto.

*** veniva a morte senza lasciare alcuna volontà testamentaria.

La ricorrente adduceva a sostegno di quanto rappresentato nella propria domanda sia documentazione sanitaria, sia articoli di stampa da cui risultava che la fidanzata della persona tragicamente scomparsa nel sinistro stradale era lei, sia biglietti di condoglianze per tale evento a lei indirizzati, provenienti anche da congiunti e dalla stessa sorella della vittima, odierna resistente; chiedeva in ogni caso altresì prova per testi sulle circostanze dedotte e idonei accertamenti sanitari, indagini ematologiche ed immunogenetiche al fine di provare la paternità naturale in caso di opposizione o di insufficiente quadro probatorio.

Si costituivano in giudizio con comparsa di risposta le resistenti *** e ***, rispettivamente madre e sorella di ***.

Ammettevano la relazione sentimentale dedotta in giudizio, assumendo nondimeno che non si era trattato di un rapporto sviluppatosi in modo continuativo, bensì era stato interrotto varie volte e per lunghi periodi, durante i quali sia il loro congiunto perito, sia la ricorrente avevano frequentato altre persone.

Ammettevano altresì lo stato di gravidanza della ricorrente, ma escludevano che il matrimonio fosse stato in programma prima della tragica fatalità.

Non si opponevano alle richieste istruttorie formulate ex adverso, chiedevano a loro volta disporsi una C.T.U. ematologica o immunogenetica e si dichiaravano disponibili a fornire campioni di sangue o di D.N.A.
Concludevano, quindi, originariamente, nel merito per il rigetto, allo stato, delle domande proposte dalla ricorrente, in quanto infondate, chiedendo darsi atto della richiesta della parte resistente di idonea C.T.U., con riserva di modificare le proprie conclusioni all’esito ed, in via istruttoria, affinché si disponesse C.T.U. funzionale all’accertamento oggetto della domanda.

In fase istruttoria il Collegio ammetteva il mezzo di prova della consulenza tecnica d’ufficio e veniva disposta C.T.U. emato-genetica.

Espletato l’incarico le consulenti nominate, *** , depositavano il proprio elaborato scritto in data 19 luglio 2010, quindi, ritenuta la causa matura per la decisione, il giudice dapprima fissava l’udienza del 16 settembre 2010 per la comparizione delle parti, quindi assegnava termine fino al 15/10/2010 per memorie conclusionali, disponendo all’esito la trasmissione degli atti al P.M. per le sue determinazioni.

Motivi della decisione

Costituisce circostanza assodata che il defunto ***, figlio e fratello delle odierne resistenti, sia il padre del minore ***, figlio della ricorrente, alla luce di quanto hanno stabilito le due consulenti nominate dal Tribunale, all’esito di un’indagine coerente e lineare, condotta alla stregua della più accreditata letteratura in materia, le cui precise risultanze – che accertano la paternità biologica di *** nei confronti di ***, fatta salva l’esistenza di gemelli monozigoti, che non sussistono – si condividono pertanto nella presente sede giudiziale, attesa l’elevatissima attendibilità scientifica dei test genetici effettuati nella specie sia sul nominato minore, sia su ***, nipote di *** e cugino di primo grado di ***.

Peraltro le stesse resistenti, che pure nel proprio atto introduttivo aveva espresso le proprie riserve secondo quanto già sintetizzato, avevano ammesso, all’udienza di comparizione delle parti, che Giorgio aveva comunicato ad entrambe di attendere un figlio.

Venendo ora alle domande consequenziali all’intervenuto, positivo accertamento di paternità naturale, mette conto considerare che la consolidata giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. II, ord. 6/10/2006, n.21628; Rv. 592565; Cass. civ., sez. I, 16/7/2005, n. 15100; Rv. 583472; Foro it. 2006, 2, parte I, 476; Cass. civ., sez. II, 7/11/1979, n.5747, Rv. 402368; Cass. civ. sez. II, ord. 6/10/2006, n.21628; Rv.592565; Cass. civ., sez. II, 10/9/2007, n. 19011; Rv.600209) esclude l’obbligo di mantenimento del figlio naturale a carico degli eredi del padre naturale: il figlio naturale riconosciuto è erede del genitore naturale alla stessa stregua dei figli legittimi, onde il suo diritto al mantenimento da parte del genitore naturale deceduto si converte in diritto ereditario laddove nulla può essere chiesto a tale titolo agli altri eredi, gravando su di essi l'obbligo di mantenimento e/o alimentare solo a favore dei figli naturali non riconosciuti o non riconoscibili, ai sensi del combinato disposto degli artt. 580 e 594 cod. civ..

Con particolare riferimento alla portata precettiva della norma contenuta nella disposizione di cui all’art.565 cod. civ., sottesa anche al principio in esame nel caso sub iudice, secondo cui nella previsione dei parenti dovrebbero ritenersi esclusi quelli naturali, il Supremo Collegio si richiama, tra l’altro, alla pronuncia della Corte costituzionale n.532/2000 – nella quale il giudice delle leggi affermava che dall’art.30 Cost. non discendesse in maniera necessitata la parificazione ai parenti legittimi di quelli naturali – per ritenere e rimarcare anche in successive decisioni il principio dell’inesistenza, nel nostro ordinamento, di un’organica normativa imperniata su un unitario status filiationis, riferibile a tutte le persone che, ex art.74 cod. civ., discendano dallo stesso stipite.

In tema di accertamento della qualità di erede legittimo, dunque, la pronuncia n.532/2000 della Corte costituzionale – di non fondatezza della questione, già sollevata nel medesimo processo, di illegittimità costituzionale dell’art.565 cod. civ. – preclude, secondo la Cassazione, che la stessa questione possa essere ancora riproposta, né sussiste la possibilità di estendere, in via di interpretazione e con il richiamo agli artt. 3 e 30 Cost., la categoria degli eredi legittimi oltre le persone verso cui produce effetti l’accertamento della filiazione naturale in base all’art.258 cod. civ., sino a ricomprendervi, oltre i genitori naturali, anche tutti i parenti naturali (Cass. civ., sez. II, 10/9/2007 n.19011 cit.).

L’esclusione di ogni assimilazione tra parentela naturale e parentela legittima – da cui discende che la prima acquista valore giuridico solo se riconosciuta o dichiarata e inoltre opera in modo ristretto, nel senso che il vincolo che si crea lega soltanto fra di loro figlio naturale e genitore naturale e non ha un’efficacia estesa al di là di tale rapporto (i.e. la scelta del legislatore di conservare ex art.537 cod. civ. in capo ai figli legittimi la possibilità di richiedere la commutazione, condizionata dalla previsione della facoltà di opposizione da parte del figlio naturale e della valutazione delle specifiche circostanze posta a base della decisione del giudice o la limitazione della legittimazione passiva all’azione ex art.269 cod. civ. agli eredi del preteso padre e non agli eredi o ad altri soggetti comunque portatori di un interesse contrario all’accoglimento della domanda, cfr., da ultimo, Cass. civ., ss. uu., n.21287/2005; Corte cost. ord. n.278/2009; n.80/2009; n.379/2008) – in tempi ancora più recenti (Corte Cost., sent. 18/12/2009, n.335) non contraddice, secondo il giudice delle leggi, la menzionata aspirazione alla tendenziale parificazione della posizione dei figli naturali, giacché non irragionevolmente si pone ancor oggi, quale opzione costituzionalmente non obbligata, né vietata, come termine di bilanciamento dei diritti del figlio naturale in rapporto con i membri della famiglia legittima.

Dunque la Corte costituzionale, pur mantenendo la prospettiva di mancata equiparazione sin qui delineata, si dimostra al contempo tutt’altro che indifferente all’equiparazione dei due status.

Ma se – come si legge in parte motiva di tale decisione – proprio l’espresso riferimento della Carta costituzionale al criterio di “compatibilità” assume la funzione di autentica clausola generale, aperta al divenire della società e del costume, si impone un’interpretazione di segno diverso ed adeguatrice del complesso di disposizione che regolano i diritti (e le prerogative) dei figli naturali, destinati altrimenti a restare irrimediabilmente privi di tutela ed irreversibilmente defraudati del proprio diritto al contributo alimentare e/o al mantenimento nell’ipotesi di genitore naturale deceduto.

Insiste nel senso della correttezza di tale modo di ragionare proprio lo stesso iter argomentativo prospettato dalla Corte costituzionale nella sua precedente pronuncia n.55 del 1979, che – nel dichiarare l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 30, comma terzo, Cost., dell'art. 565 cod. civ., nella parte in cui escludeva dalla categoria dei chiamati alla successione legittima, in mancanza di altri successibili, e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali riconosciuti o dichiarati, venendosi conseguentemente a stabilire per essi un trattamento deteriore rispetto a tutti gli altri successibili ex lege, (sul solco delle precedenti pronunce nn. 7/1963; 79/1969; 50/1973; 82/1974; 76/1977) – stabiliva: “una minore tutela del figlio nato fuori del matrimonio in tanto può trovare una sua giustificazione costituzionale in quanto tale condizione venga a confliggere con i diritti dei membri della famiglia legittima. In assenza - come nella specie - di altri successibili ex lege ad eccezione dello Stato, tale situazione di conflittualità non si determina e quindi - sottoponendo a revisione critica la precedente pronuncia di non fondatezza della medesima questione (sent. n. 76/1977), sia pure relativamente a disposizioni diverse del codice civile, ed armonizzando la soluzione del caso in esame con la costante giurisprudenza di questa Corte (sentt. nn. 7/1963; 79/1969;50/1973; 82/1974) - la posizione del figlio naturale va assimilata a quella del discendente legittimo, giustificandosi così la successione tra fratelli (o sorelle) naturali, purché la filiazione sia stata riconosciuta o dichiarata”, posizione successivamente ribadita, sempre dalla Consulta, con la sentenza, n.184/1990, che affermava, inoltre, come l’art. 30, comma terzo, Cost., coordinato con il principio di ragionevolezza ex art. 3, implicasse che il legislatore – nel determinare discrezionalmente i casi e i contenuti di giuridica rilevanza del riconoscimento della prole naturale nei rapporti fra questa e i parenti del genitore – non potesse tuttavia discriminare il figlio naturale da quello legittimo più di quanto ciò fosse richiesto da un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco e dal contemperamento con altri principi di pari o maggior peso.

Non può dunque definirsi granitica, nel tempo, la posizione della Corte Costituzionale in tema di parità giuridica dei figli legittimi e naturali (che, si rimarca, afferma espressamente l’”aspirazione alla tendenziale parificazione della posizione dei figli naturali”, sent. n.335/2009) dovendosi piuttosto leggere, a seguito di una vera e propria ammissione, sia pure implicita e controversa, del riconoscimento del rapporto di parentela naturale con la richiamata sentenza n.55 del 2 giugno 1979, tra conferme e smentite, come si è visto – cui deve aggiungersi altresì la pronuncia n.377 del 1994, nella quale la Consulta ha affermato che la tutela dei fratelli e sorelle naturali del de cuius ai fini della successione ab intestato rientra nella direttiva costituzionale di graduale miglioramento della condizione di diritto familiare della prole naturale (anche) nei rapporti con i parenti del genitore, ma l'attuazione di tale direttiva postula un bilanciamento di interessi in cui il referente per la ponderazione della suddetta tutela è non già la famiglia legittima del defunto intesa in senso stretto (comprensiva, in mancanza di coniuge e discendenti, dei soli ascendenti e dei fratelli e sorelle legittimi), bensì la sua famiglia di origine, ossia la parentela definita dall'art. 74 cod. civ., non essendovi indicazioni normative o sociologiche che autorizzino, ai fini considerati, a restringere la rilevanza giuridica di tale vincolo – una linea ermeneutica sempre più protesa alla più compiuta attuazione del precetto costituzionale di cui all’art.30, terzo comma, Cost., che prevede espressamente che “La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”.

Ed invero, muovendo dal disposto di cui all’art.258 cod. civ. che, stabilendo che il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto, salvo i casi previsti dalla legge, costituisce il fondamento giuridico sul quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto leva per affermare la negazione del rapporto di parentela naturale, può, di contro osservarsi che la stessa disposizione, se correttamente intesa, non è affatto di ostacolo all’ammissione della parentela naturale, avendo il tenore di tale articolo la precipua finalità di solenne affermazione dell’autonomia del riconoscimento del genitore, del rapporto di filiazione nei riguardi del genitore che ha effettuato il riconoscimento, semmai con particolare riguardo, per escluderlo, all’altro genitore. La disposizione non andrebbe, quindi, letta nel senso, più ampio, dell’assoluta irrilevanza dei rapporti con i parenti del genitore naturale.

Pacifico che il riconoscimento ai sensi e per gli effetti di cui all’art.258 cod. civ. produce effetti sul rapporto genitore-figlio, merita notare che, sempre sulla scorta del puro dato normativo codicistico, ulteriori effetti si determinano nei rapporti con altri soggetti ex art. 433 nn. 2 e 3 cod. civ., in tema di alimenti, laddove tale disposizione estende l’obbligo di prestare gli alimenti non solo, in mancanza del grado più prossimo, ai discendenti naturali, bensì, in mancanza di genitori, agli ascendenti, anche naturali; ovvero ex art.467 cod. civ. in tema di rappresentazione o, ancora, ex art.737 cod. civ. in tema di collazione.

Tali riferimenti normativi inducono a ritenere che l’espressione “salvo i casi previsti dalla legge” contenuta nel primo comma dell’art.258 cod. civ., non rivesta il significato – superfluo – di un semplice richiamo a casi eccettuati, espressione di puro perfezionismo legislativo, bensì di autentico valore normativo, per sancire, cioè, la derogabilità in via di principio della regola per cui il rapporto di parentela naturale giuridicamente rilevante esiste solo tra genitore e figlio e consentire, quindi, di ammettere che ex art.433 cod. civ. la parentela naturale in linea retta ha la stessa ampiezza di quella legittima; che ex art.467 cod. civ. essa sussiste in linea collaterale tra il figlio naturale ed il fratello del genitore di lui; che ex art.737 cod. civ. un vincolo di parentela si istituisce anche tra i figli naturali dello stesso genitore.

Merita osservare, poi, che l’art.74 cod. civ., poi, definisce la parentela tout court come il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite”, senza conferire alcuna rilevanza alla distinzione tra parentela legittima e naturale. Si tratta, in altre parole, di un legame biologico di comune discendenza, che prescinde dall’esistenza di eventuali legami coniugali e, dunque, non fa alcuna distinzione tra filiazione legittima e naturale. Da ciò discende, inevitabilmente, che la responsabilità relativa al mantenimento del figlio gravante sul genitore ex art.30 Cost. deriva dal fatto stesso della procreazione, indipendentemente dalla sua formale risultanza e qualsivoglia natura si creda di dover attribuire al provvedimento di cui all’art.277 cod. civ., che pertanto rileva non già come fonte dell’obbligo in questione, ma solo come presupposto per la sua esigibilità, nonché come necessario strumento di determinazione della sua entità. Il genitore biologico, dunque, a prescindere dal formale accertamento del legame di filiazione, ha nei confronti della prole la medesima responsabilità giuridica per l’adempimento dei diritti di natura personale e patrimoniale sanciti dalla Carta costituzionale.

In questa direttrice di sempre più adeguata tutela della condizione di diritto familiare della prole naturale si inscrive proprio il principio di responsabilità genitoriale, immanente nell'ordinamento e ricavabile dall'interpretazione sistematica degli articoli 261 cod. civ., che parifica doveri e diritti del genitore nei confronti dei figli legittimi e di quelli naturali riconosciuti); 147 e 148 cod. civ., comprendenti il dovere di apprestare un'idonea abitazione per la prole, secondo le proprie sostanze e capacità, in correlazione all'art. 30 della Costituzione (Cass. civ., sez. I, sent. n. 10102 del 26/05/2004; Rv. 573134), principio introdotto esplicitamente dalla Corte costituzionale (sent. n.166/1998). In particolare, l’art.148 cod. civ. non distingue tra i figli quando chiama i nonni a contribuire al loro mantenimento, se i genitori non hanno sufficienti mezzi, al pari delle regole dell’obbligazione alimentare che non fanno differenze di tal genere tra ascendenti e discendenti, per fondare i doveri di solidarietà.

Assai significative aperture alla rilevanza della parentela naturale, emblematiche di un percorso obbligato di effettività della tutela ormai intrapreso dal legislatore, si ricavano dalla recente legge 8 febbraio 2006, n. 54, sull'esercizio della potestà in caso di crisi della coppia genitoriale e sull'affidamento condiviso che, in virtù del rinvio contenuto nell’art.4, ha esteso l’applicabilità dell’art.155 cod. civ. altresì ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati e, in particolare, il diritto del minore a “conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” e, più in generale da tutta la recente riforma dei regimi di affidamento introdotta con la ricordata legge del 2006, che ha imposto con forza il tema della bi-genitorialità.

Se dunque, già a livello di normazione primaria ordinaria non è dato riscontrare alcun solido fondamento giuridico persuasivo, tale da imporre la lettura sinora pacificamente accreditata dalla giurisprudenza di legittimità al tema, è ancora la Consulta, con le sue pronunce, ad avere già tracciato in maniera tanto chiara quanto inarrestabile un percorso che si colloca ben al di sopra di una mera questione di politica legislativa e che anche in punto di parentela naturale impone al giudice, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica e, dunque, dovendo preventivamente verificare la praticabilità di un’interpretazione conforme alle norme costituzionali, una soluzione costituzionalmente orientata, di segno diverso, unica veramente adeguata agli artt.2, 3 e 30 Cost., disposizioni in cui trova fondamento l’istituto della famiglia naturale e che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione, tanto più avuto riguardo al “preminente interesse del minore”, che costella tutto il diritto minorile normato interno ed internazionale (cfr. art.3 Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989; direttiva 2003/86/CE emessa dall’Unione Europea in data 29/7/2003, in cui si attribuisce agli Stati che partecipano alla stessa U.E. anche il compito di “assicurare la protezione della famiglia ed il mantenimento e la creazione della vita familiare”) e rappresenta a sua volta il principio ispiratore imprescindibile nell’apprezzamento dei diversi interessi in gioco in materia (cfr, tra le altre e proprio con precipuo riferimento alla frequentazione dei nonni, Cass. civ., 25/9/1998, n.9606; Rv. 519168; in Fam. dir., 1999, 17).

Alla luce, infatti, del principio, valido rispetto a ogni genere di prole, sancito dall'art. 30, primo comma, Cost. del dovere naturale che grava sui genitori al mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 166/1998; al riconoscimento formale di un proprio status filiationis, come elemento costitutivo dell'identità personale, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 120/2001; al diritto di azione, esperibile nell'esclusivo interesse del figlio, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 341/1990, l’interpretazione delle norme codicistiche sopra esaminate nel senso dell’esclusione a carico degli eredi del padre di un obbligo di mantenimento del figlio naturale e, più in generale, della rilevanza giuridica della parentela naturale non solo non trova fondamento nelle norme costituzionali e di valore normativo ordinario che regolano la materia, come si è visto, né nel solco giurisprudenziale tracciato dalla Corte costituzionale, ma finisce altresì per produrre un’identica capitis deminutio, perpetua ed irrimediabile, quale quella già imposta ai c.d. figli incestuosi, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, evidente violazione di uno status filiationis e del principio costituzionale di uguaglianza, come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali, per il quale la Corte costituzionale è già intervenuta, con la sentenza n.494/2002, sancendo l’illegittimità costituzionale dell'art. 278, primo comma, del codice civile, nella parte in cui escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell'art. 251, primo comma, del codice civile, il riconoscimento dei figli incestuosi era vietato.

Va sottolineato ancora, invero, che, contrariamente a quanto previsto nell’ipotesi di concorso all’eredità dei figli legittimi e naturali, per la quale l’art.537 cod. civ. prevede il diritto di commutazione, che non costituisce un insindacabile diritto meramente potestativo attribuito ai figli legittimi, ma piuttosto un diritto ad esercizio puntualmente controllato, in quanto soggetto alla duplice condizione della mancata opposizione del figlio naturale e della decisione del giudice “valutate le circostanze personali e patrimoniali” (Corte costituzionale sent. n.335/2009), nell’ipotesi che ci occupa, il minore, figlio naturale del padre deceduto prima della sua nascita, pur a seguito dell’accertamento giudiziale di paternità naturale, resterebbe puramente e semplicemente deprivato delle prerogative patrimoniali a lui spettanti, in virtù delle considerazioni sin qui svolte, senza alcuna possibilità di modulazione e di adeguamento della concreta applicazione della norma ai principi costituzionali da parte del giudice, cui non sarebbe lasciato alcun margine di intervento, prima ancora che di apprezzamento discrezionale.

Non pare seriamente ravvisabile alcuna ragionevolezza meritevole di riconoscimento, assumendo a parametro i diritti dei membri della famiglia legittima, atta a legittimare il riconoscimento della diversità di posizioni in esame, anche alla luce del menzionato criterio di compatibilità che, come detto, rappresenta lo snodo del sistema costituzionale finalizzato alla composizione dei diritti coinvolti nello specifico ambito dei rapporti tra il figlio naturale ed i membri della famiglia legittima e che la Corte costituzionale inscrive nella dinamica evolutiva dei rapporti sociali (cfr. sent. n.168/1984).

Nel nostro ordinamento l’art.2 Costituzione appresta la chiave di lettura del fondamento che la Carta costituzionale stessa offre alla famiglia attraverso gli artt.29, 30 e 31. Gli interessi della famiglia che l’ordinamento garantisce si coniugano con i valori della persona, sia sotto il profilo statico dell’integrità e della dignità, sia sotto quello dinamico dell’armonico sviluppo della personalità. La prospettiva solidaristica impone la ricerca di un criterio di contemperamento dell’esercizio dei diritti fondamentali, o meglio la ricerca dell’”equilibrio delle libertà”. In caso di conflitto tra interessi tutti degni di garanzia, a livello costituzionale, la scelta di quello da privilegiare o da sacrificare deve avvenire secondo la precisa gerarchia dei valori dettati dalla stessa Costituzione. Nella famiglia, il principio di solidarietà, che si estrinseca nella solidarietà familiare, prescrive con ancora maggior forza di subordinare le categorie dell’avere a quelle dell’essere, ovvero di considerare le situazioni patrimoniali come strumentali alla realizzazione di quelle di natura esistenziale (in termini si esprimeva la relazione di presentazione del d.d.l. n.2541/2007, già presentato il 12 aprile 2007, cfr. Atti Parlamentari XV Legislatura – Disegni di Legge e Relazioni – Documenti; Camera dei Deputati n.2514, pag. 1 – 18).

Ma anche sul piano sovranazionale ci troviamo in presenza di valori e principi, considerati comuni agli stati membri dell’Unione Europea, quali gli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e gli artt. 21 e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – in relazione all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009) che all’art.6, par. 1, recepisce la Carta di Nizza con lo stesso valore del Trattato sulla Unione e come catalogo completo dei diritti umani – che, pur non applicabili ex art.51 della stessa Carta nella specie, non controvertendosi di una norma dell’Unione o di una disposizione interna ad essa in qualche modo connessa, è certamente munita della massima pregnanza persuasiva ed orientativa sul piano ermeneutico (cfr. a proposito della rilevanza argomentativa della Carta dei diritti UE anche al di fuori delle ipotesi di diretta applicazione Corte cost. n.93/2010; Cass. civ., sez. III, sent. n. 2352 del 02/02/2010; Rv. 611781; Banci ed altri (Ciardelli ed altro) contro Azzolina (Bava); Cass. civ., sez. III, sent. n. 18378 del 06/08/2010; Rv. 614317 ; Bassi (Lattanzi ed altri) contro Com. Carrara (Iaria) ed, in epoca precedente al dicembre 2009, Cass. civ., sez. I, sent. n.6441 del 17/03/2009; Rv. 607482; Mccall ed altro (Consoli ed altro) contro Questura Livorno ed altro; Cass. civ., sez. III; sent. n. 29191 del 12/12/2008; Rv. 606206; Habeker (Bianchi ed altro) contro La Fondiaria Assicurazioni Spa ed altro (Sessa)).

Così la nozione di famiglia accolta dall’art.8 CEDU non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza. La durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli sono elementi ulteriormente valutabili (cfr. CEDU, Prima Sezione, 13/12/2007, Emonet et Autres vs Svizzera; num. Ric. 39051/03).

L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europa (sulla scia storica che muove dal primo principio della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, adottata nel 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e, poi, dal preambolo della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, esecutiva in Italia nel 1991) testualmente annovera la nascita tra i fattori di discriminazione vietati: pare ineludibile non incorrere in tale discriminazione privando il bambino che non nasce all’interno di un matrimonio, per il solo fatto che la sua nascita non sia avvenuta all’interno della struttura familiare come riconosciuta ed approvata normativamente, di un autentico status familiae, garantendogli quella fitta trama di rapporti interpersonali primari, fondamentali, costruiti all’interno della famiglia, nel contesto dei quali formare la propria, piena dignità di figlio; l’affermazione come persona; la crescita sociale e lo sviluppo sereno della propria personalità.

Assodato, alla luce dell’art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che precisa: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione” l’obbligo negativo incondizionato e generalizzato di vietare ogni forma di discriminazione, compito primario delle Istituzioni comunitarie, alla luce dell’art.13 Trattato della Comunità europea è quello di adottare i provvedimenti più opportuni per eliminare tali discriminazioni, lasciando tuttavia ampio margine discrezionale su se e come procedere.

Rimarcate, quindi, le restrizioni dell’ambito applicativo della Carta in virtù delle clausole orizzontali ex artt. 51 e ss, limitative dell’operatività di principi della Carta agli esclusivi ambiti di competenza dei Trattati, nondimeno corre l’obbligo di osservare, sul piano generale, come i principi di diritto comune europeo abbiano il pregio di rendere evidenti i valori universali del principio personalistico su cui si fondano gli Stati della Unione e come, più in particolare, il tema dell’eguaglianza e della parità di trattamento non costituisca una competenza, bensì un principio generale, la cui operatività taglia trasversalmente tutto l’ordinamento comunitario, non diversamente da quanto accade negli ordinamenti nazionali (in tal senso la Corte di Giustizia, cfr. sent. Mangold, causa C144/04, in Rivista Critica del diritto del lavoro, 2006, pag.387 ss, successivamente temperata da altre pronunce, così la sent. Lindofer 11/9/2007 causa C227/04; Palacios de la Villa 11/10/2007 causa C411/05; Bartch vs. BSH 23/9/2008 causa C427/06).

Anche alla stregua del risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento nazionale e sovranazionale, nei confini degli ambiti di rispettiva competenza, in conclusione, a parere del Collegio, è di tutta evidenza che la norma costituzionale di cui all’art.30, terzo comma, Cost., possa avere concreta attuazione esclusivamente con il pieno riconoscimento della rilevanza giuridica, oltre che del rapporto genitore-figlio naturale, del rapporto figlio naturale con i parenti del genitore naturale.

Infine, insiste in termini incondizionati per la totale equiparazione dei due status e per il superamento delle residue, poche distinzioni che tuttora permangono tra figli legittimi e naturali, retaggio di antiche discriminazioni, la prospettiva de iure condendo in materia.

Con due provvedimenti distinti, uno di iniziativa governativa e l’altro approvato in prima lettura a inizio ottobre scorso dal Senato, si è messa mano alla disciplina giuridica (o meglio si è ripreso il d.d.l. n.2541/2007, già presentato il 12 aprile 2007, cfr. Atti Parlamentari XV Legislatura cit.) che regola i rapporti tra genitori e figli, con un disegno di legge che porterà alla revisione completa della disciplina giuridica della filiazione, con la scomparsa di ogni riferimento alla provenienza legittima o naturale della nascita: all’art.315 bis cod. civ. si afferma il principio che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico. Le disposizioni in tema di filiazione si applicano a tutti i figli senza distinzioni, salvo che si tratti di disposizioni specificamente riferite ai figli nati nel matrimonio o a quelli nati fuori del matrimonio” e che “ogni figlio [minore di età] ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori …” (art.315 cod. civ.).

Obiettivo dichiarato della revisione normativa, si legge nella relazione al d.d.l. cit., è proprio quello “di parificare ogni forma di filiazione, nel rispetto dell’art.30, terzo comma, Costituzione. Da tempo, nei vari paesi dell’Unione europea, la tendenza è verso una completa equiparazione tra tutti i figli senza ulteriori qualificazioni ...” ed, ancora: “Le decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo tratteggiano la famiglia come organismo che presuppone lo sviluppo della personalità dei suoi componenti, sulla base dei principi di pari dignità, di libertà, , di eguaglianza e di solidarietà. Da qui discende una serie di corollari, tra i quali si possono sicuramente menzionare quelli relativi alla tutela dei figli per sé stessi, cioè in quanto individui nati, e alla pari dignità dei figli naturali rispetto ai figli legittimi”.

La legislazione delegata dovrà, quindi, rivedere “tutte le disposizioni vigenti in materia di filiazione per eliminare ogni residua discriminazione tra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori del matrimonio” mantenendo come punto di riferimento i diritti che attualmente sono garantiti ala filiazione nel matrimonio e, in particolare, all’art.2, lett. e), punto 1), è previsto che “il riconoscimento produca effetti anche nei confronti dei parenti del genitore che lo effettua”.

La prospettiva tende al riconoscimento di un unico status filiationis, fondato sui due aspetti della verità biologica e dell’assunzione della responsabilità rispetto al figlio, aspetti entrambi necessariamente presenti a fondare la ratio della disciplina.

Il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio produrrà perciò effetti anche nei confronti dei parenti del genitore che lo effettua e non solo nei confronti del genitore che lo riconosce.

Applicati al caso di specie i superiori principi espressi, oltre che dalla giurisprudenza tratteggiata, anche su piano dogmatico, in maniera pressoché unanime, nell’ipotesi che ci occupa i provvedimenti ex art.277 cod. civ., ritualmente richiesti e conseguenti al positivo accertamento giudiziale della paternità di  *** nei confronti del minore ***, vanno adottati, essendo lei in vita, nei soli confronti della madre del padre naturale deceduto, signora ***, cui si trasferisce iure ereditario e non risultando in alcun modo, né avendo costituito oggetto di contestazione di sorta un eventuale accettazione con beneficio di inventario che potrebbe assumere rilevanza per l’odierna decisione.

Ciò posto, in linea generale mette conto considerare che nella determinazione del contributo previsto dall'art. 277, secondo comma, cod. civ. per il mantenimento del figlio minore nato fuori del matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice, ai sensi dell'art. 155 cod. civ., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati in virtù del rinvio contenuto nell'art. 4 della legge n. 54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche del tenore di vita goduto dallo stesso nel corso della convivenza con entrambi i genitori, nonché delle risorse economiche di questi, in modo da realizzare il principio generale di cui all'art. 148 cod. civ., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo (cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 23630 del 06/11/2009 (Rv. 610316)) ed inoltre che, sempre in materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell'obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all'altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; poiché è principio generale (desumibile da varie norme, quali ad esempio gli articoli 379, secondo comma, 2054, 2047 cod. civ.) che l'equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche quando la legge si riferisca in genere ad indennizzi o indennità, il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso (così, Cass. civ., sez. I, sent. n. 10861 del 01/10/1999 (Rv. 530377).

Nell’ipotesi in esame, in cui per un verso non è possibile esprimere alcun apprezzamento in ordine al tenore di vita goduto nel corso della convivenza e nella carenza, per altro aspetto, di qualsiasi supporto probatorio specifico in ordine alla situazione reddituale del padre naturale di *** *** (e, peraltro, della medesima genitrice di quest’ultimo, obbligata, la quale, tuttavia non ha prospettato e, tantomeno dimostrato alcuna personale condizione di indigenza) e, dunque, non è possibile pervenire ad una esatta determinazione dell'importo dovuto a titolo di rimborso in favore del genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, è legittimo il ricorso all'equità, trattandosi di criterio di valutazione del pregiudizio anche per i crediti di natura indennitaria (cfr., ancora, Cass. civ., sez. I, sent. n. 3991 del 19/02/2010 (Rv. 611802)) ed in ogni caso nei limiti dell’obbligo alimentare ai sensi e per gli effetti di cui all’art.433 cod. civ. (cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n.20509 del 30/9/2010, (Rv.614311)).

Ritiene il Collegio equo – alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, posti in relazione alle circostanze del caso concreto – dal documento n.10 della produzione di parte ricorrente risulta unicamente che *** svolgesse mansioni dipendenti con la qualifica professionale di elettricista dipendente, avuto riguardo all’id quod plerumque accidit, in funzione dell’età assolutamente giovanile, delle buone condizioni di salute del padre naturale e quindi della sua presunta retribuzione; nonché avuto riguardo all’età del figlio minore ed al suo preminente interesse – riconoscere un contributo economico, nell’entità dell’obbligo alimentare, a carico della resistente signora ***, pari a 200,00 € mensili e detta somma dovrà essere corrisposta a far data dalla data di nascita del bambino (2/5/2008), dovendosi ritenere la domanda inclusa nell’ampia richiesta di adozione di tutti i provvedimenti utili al mantenimento del minore ed a tutela dei suoi interessi patrimoniali ai sensi e per gli effetti di cui all’art.277 cod. civ..

Quanto alla domanda intesa ad ottenere la condanna alla restituzione pro quota delle spese sino ad ora sostenute per il mantenimento del figlio, rispetto alla quale, come costantemente affermato dal Supremo Collegio: “Nell'ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l'obbligo dell'altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato da parte di entrambi i genitori. Da ciò consegue, per un verso, che il genitore naturale, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non può sottrarsi alla obbligazione nei confronti del figlio per la quota parte posta a suo carico, ma è tenuto a provvedere, sin dal momento della nascita, e, per altro verso, che il genitore il quale ha provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio ha azione nei confronti dell'altro per ottenere il rimborso ‘pro quota’ delle spese sostenute dalla nascita” (ex pluribus, Cass. civ., sez. I, sent. n. 17914 del 30/7/2010, Rv.614213; Cass. civ., sez. 1, sent n. 23630 del 06/11/2009, Rv. 610315; Cass. civ., sez. 1, sent. n. 23596 del 03/11/2006, Rv. 592713; sez. 1, sent n. 26575 del 17/12/200, Rv. 600958; n.15765 dell’11.7.2006; n. 2328 del 2006, Rv. 588797).

La stessa giurisprudenza aveva sinora ritenuto, altresì, che tale azione non fosse, tuttavia, utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo ‘status’ di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segnasse altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.

Reputa piuttosto il Collegio di dover aderire al recente arresto giurisprudenziale, di diverso segno, che nel richiamare la sentenza 8 agosto 1989 n. 3635 della Corte di Cassazione, secondo la quale il riferimento all'art. 269 c.c., comma 1, contenuto nell'art. 38 disp. att. cod. civ. “costituisce espressione ellittica imposta dal tipo di rinvio operato nella disposizione citata, che con il semplice richiamo del giudizio per la dichiarazione di paternità o maternità naturale ha inteso riferirsi a tutto il procedimento che attiene a tale pronuncia, ivi inclusi l’adozione dei provvedimenti opportuni per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione del figlio e per la tutela dei suoi interessi patrimoniali, quali misure consequenziali (‘effetti’ della sentenza secondo la rubrica dell'art. 277 c.c.) alla pronuncia dichiarativa del rapporto di filiazione". La competenza del giudice minorile è dunque radicata in ragione del fatto oggettivo della presenza in giudizio di un minore e in tale prospettiva non ricorrono le condizioni per operare distinzioni fra il periodo antecedente alla sentenza e quello successivo, ovvero per operare preclusioni all'esercizio di un'azione di regresso tra condebitori solidali ex art. 1299 c.c. quale risulta essere quella in oggetto. D'altra parte nella stessa sentenza della Cassazione n. 23596 del 2006 è stato precisato che la domanda di rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del figlio "può essere proposta in giudizio con la domanda di accertamento giudiziale della paternità o maternità", mentre è l'esecuzione del titolo che presuppone la definitività della sentenza di accertamento. Tale conclusione, per di più, oltre ad essere riconducibile alla normativa vigente ed in sintonia con la giurisprudenza della Corte, risulta anche in linea con il principio di economicità e di quello del giusto processo che ne impone, fra l'altro, una sua ragionevole durata (Cass. civ., sez. I, 30/7/2010, n.17914; Rv. 614213).

Anche la domanda relativa alla restituzione pro quota delle spese sino ad ora sostenute per il mantenimento del figlio, potrebbe pertanto astrattamente trovare accoglimento in questa sede, senza che la stessa debba formare oggetto di pretesa esperibile soltanto successivamente al passaggio in giudicato della presente pronuncia.

Reputa nondimeno il Tribunale che nella specie la richiesta relativa al rimborso pro quota delle spese anticipate, astrattamente formulabile nell’interesse proprio della ricorrente, non possa trovare accoglimento, atteso che la sua titolarità in capo alla madre del minore preclude di ritenerla ricompresa nelle conclusioni omnicomprensive ex art.277 cod. civ., ora richiamate, formulate con esclusivo riguardo alle prerogative del minore.

Le spese del procedimento, in esse incluse quelle per la C.T.U., che si liquidano come da dispositivo, non possono non tener conto sia della mancata opposizione della parte resistente ed anzi dell’esplicita richiesta di C.T.U. ematologica o immunogenetica, fornendo completa disponibilità a fornire campioni di sangue ovvero di D.N.A., sia della particolare difficoltà della questione giuridica sottesa alla decisione del riconoscimento dell’obbligo alimentare a carico, peraltro, della sola madre di ***: si tratta di ragioni che ben giustificano una totale compensazione tra le parti delle spese processuali e la definitiva attribuzione degli oneri della C.T.U. espletata a carico di entrambe le parti in egual misura, come già era stato posto l’acconto.

P. Q. M.

visti gli articoli 269 cod. civ.; 737 c.p.c.; 38 disp. att. c.p.c.; definitivamente pronunciando sul ricorso sopra enumerato, disattesa ogni contraria istanza, eccezione o difesa;

accerta

che ***, nato a *** , il ***, è figlio naturale del signor ***, nato a *** e deceduto a *** il ***;

determina

la misura del contributo dovuto dalla signora *** alla ricorrente a titolo di contributo alimentare in favore del minore *** in 200,00 € mensili, rivalutabili annualmente secondo gli indici ISTAT;

dichiara

integralmente compensate tra le parti le spese processuali;

liquida

in favore delle nominate consulenti tecniche d’ufficio, *** , l’importo complessivo di 1.501,81 €, di cui 1.100,00 € per onorari e 401,81 € per rimborso spese di laboratorio e pone definitivamente a carico delle parti, in egual misura, la residua cifra ancora da versare, pari a 501,81 €.

Manda

alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.

Trieste, 22 dicembre 2010
Il Giudice estensore, Dott. Angela Gianelli
Il Presidente, Dott. Paolo Sceusa.
Depositato in cancelleria, oggi 22.12.2010, il Cancelliere

Stampa