Ord. forense

ORD. FORENSE - Codice Deontologico e tipizzazione delle condotte illecite.

Scritto da Avv. Salvatore Frattallone. Pubblicato in Ordinamento forense

VIII Congresso giuridico forense, Roma, CNF. Discorso inaugurale del Presidente Guido Alpa

S. Spirito in Saxia, Roma, VIII Congresso Giuridico di Aggiornamento Forense. Sessione di deontologia.
Relazione dell'Avv. Lucio Zarantonello
(da www.cnf.it).
Codice deontologico e tipizzazione delle condotte illecite.

L’art. 3 co. 3° della nuova legge professionale, che tratta i doveri e la deontologia, stabilisce che: “Il codice deontologico espressamente individua tra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile”.

La previsione normativa rivoluziona, per così dire, l’assetto dell’attuale codice deontologico, anche alla luce di quanto stabilito all’art. 60 dello stesso, secondo cui le disposizioni del codice costituiscono mera esemplificazione dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi nel codice deontologico stesso.
Si dovrebbe passare, infatti, dalla odierna ATIPICITÀ ad una – per quanto possibile – TIPIZZAZIONE delle condotte.

L’ATTUALE SISTEMA DEL CODICE DEONTOLOGICO E LA GIURISPRUDENZA SULLA TIPICITA’ DELLE CONDOTTE

L’attuale codice deontologico, come si è detto, è caratterizzato dalla prevalente atipicità delle condotte.

Nel corso degli ultimi dieci anni la giurisprudenza si è più volte soffermata sul problema della tipizzazione delle condotte, escludendo violazioni delle norme costituzionali o lesioni del principio di legalità nelle previsioni dell’attuale codice deontologico, affermando che il principio di legalità “si riferisce solo alle sanzioni penali e non si applica alle sanzioni disciplinari” (SS. UU. 20.05.2005 n. 10601) e che la mancata specifica individuazione di tutte

le ipotizzabili azioni ed omissioni lesive del decoro e della dignità professionale, non incide sulla legittimità costituzionale delle norme deontologiche poiché, “anche in tema di illeciti disciplinari, stante la stretta affinità delle situazioni, deve valere il principio – più volte affermato in tema di norme penali incriminatici “a forma libera – per il quale la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione sono validamente affidate a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice (nella specie, quello disciplinare) opera” (SS. UU. 03.05.2005 n. 9097) (C.N.F. 10.12.2005 n. 129).

L’attuale sistema, connotato dalla indicata “atipicità”, che trova nella norma di chiusura di cui all’art. 60 la sua massima affermazione, non risulta dunque in contrasto con i principi costituzionali e, specificamente con l’art. 25, cosicché la nuova previsione non appare giustificata da una esigenza di legalità e di aderenza ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale.

Appare allora opportuno chiedersi quali esigenze abbiano spinto il legislatore della riforma a prevedere (per quanto possibile) la tipizzazione delle condotte “scorrette” dell’avvocato, almeno di quelle che rispondono alla “tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione”.

Si potrebbe sostenere che vi era la necessità di allineare le regole di condotta dell’avvocato a quelle dei magistrati o delle altre professioni liberali.

Oppure che gli avvocati italiani dovevano avere norme di comportamento simili a quelle esistenti, per gli avvocati, in altri paesi europei a noi vicini per cultura e tradizione.

Occorre dunque verificare la fondatezza di tali possibili giustificazioni.

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LE NORME DEONTOLOGICHE DEI MAGISTRATI

Il decreto legislativo n. 109/2006 “disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati e delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicazione” ha radicalmente modificato il sistema precedente, improntando l’intera disciplina ad una tendenziale tipizzazione degli illeciti, sia per le condotte connesse all’esercizio delle funzioni giudiziarie, sia per quelle ad esse estranee.

La più rilevante novità rispetto al sistema previgente, consiste proprio nel passaggio da un illecito atipico a fattispecie tipiche, con un rafforzamento dei connotati giurisdizionali del procedimento disciplinare.

La riforma, fortemente caldeggiata negli anni precedenti, sulla scorta della considerazione che l’atipicità dell’illecito non consentisse di individuare con precisione le condotte integranti infrazioni ai doveri deontologici, non ha mancato di creare problemi interpretativi di rilevanza anche esterna, con l’accusa di un eccesso di corporativismo, seppur smentita dai numeri crescenti dei procedimenti disciplinari.

Se lo scopo della riforma era quello di garantire ed assicurare al sistema una maggiore razionalità, in ossequio al principio della certezza del diritto e a tutela dell’indipendenza ed imparzialità dei giudici, vi è da rilevare che la normativa introdotta non risolve la questione, stante, da un lato, la sovrabbondanza di alcune previsioni e, dall’altro, la totale assenza di un riferimento al dovere di indipendenza e al dovere di fedeltà dei magistrati.

In questo senso, l’art. 1 del D.Lgs. 09/20061 [1. Art.1: Doveri del magistrato. I. Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni. II. Il magistrato, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria. III: Le violazioni dei doveri di cui ai commi 1 e 2 costituiscono illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste agli articoli 2,3, e 4.] enuclea e riassume i generali doveri del magistrato, individuandoli nel dovere di imparzialità, correttezza, diligenza, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona, rendendo così superflua la lunga elencazione di cui all’art. 2 (illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni). Infatti, ciascuna delle fattispecie qui elencata costituisce estrinsecazione e puntualizzazione del generale divieto di violazione dei doveri di cui all’art. 1, di talché occorre stabilire se una qualsiasi violazione dei doveri previsti da tale articolo possa costituire illecito disciplinare, anche se non previsto tra le condotte indicate nell’art. 2.

La questione è stata risolta dalla Sezione disciplinare del CSM2 [2. CSM, sez. disc.del 7 dicembre 2007 n. 106.] nel senso di ritenere tassativa l’elencazione di cui agli artt. 2 e 3, poiché una diversa lettura della normativa finirebbe per rendere superflua l’indicazione delle singole condotte deontologicamente scorrette e finirebbe per reintrodurre nel sistema una clausola di chiusura che aprirebbe nuovamente le porte al principio di atipicità dell’illecito disciplinare.

Nonostante tale autorevole conclusione, è possibile che una certa violazione di doveri di imparzialità, correttezza sanciti nell’art. 1 non sia ricompresa tra gli illeciti tipizzati di cui agli artt. 2 e 3, con una evidente lacuna di un sistema che intende ispirarsi alla tassatività degli illeciti. In concreto, si possono manifestare incongruenze e illogicità nel sanzionare un dato comportamento come deontologicamente rilevante, lasciando impunite altre condotte, accrescendo in tal modo le difficoltà di inquadramento di fattispecie che nel previgente sistema, ispirato al principio dell’atipicità dell’illecito, sarebbero state verosimilmente sanzionate.

A ciò si aggiunga che risulta difficile comprendere come i singoli illeciti tipizzati siano disciplinarmente rilevanti se non costituenti anche violazione dei principi generali di cui all’art. 1; se la violazione del dovere di imparzialità correttezza ecc. non può integrare illecito disciplinare se non rientrante nella indicata tassativa elencazione, allo stesso modo la fattispecie tipica non potrà essere sanzionata se non costituisce violazione dei principi generali ex art. 1.

Non è, pertanto, sufficiente rilevare che astrattamente un dato comportamento sia riconducibile alla fattispecie indicata nell’art. 2 o nell’art. 3, ma è altresì necessario che lo stesso sia lesivo di uno dei doveri fondamentali del magistrato, con la conseguenza che la norma di cui all’art. 1 assurge a parametro di riferimento di ogni violazione prevista come illecito tipico disciplinare.

A colmare le lacune del sistema soccorre, molto spesso, l’interpretazione estensiva delle norme incriminatici, che la stessa sezione disciplinare del CSM ha ritenuto compatibile con il principio di tassatività.

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LE REGOLE DEONTOLOGICHE DEI NOTAI

L’attività del notaio trova una duplice fonte di regolamentazione: la legge notarile del 16 febbraio 1913 n. 89 e il codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato nel febbraio del 1994, la cui ultima versione risale al 25 aprile 2005.

Le due normative si integrano e completano a vicenda, contribuendo a definire la funzione del notaio non solo in termini di dover essere, ma anche dell’essere stesso del professionista, prevedendo una sua particolare responsabilità per gli illeciti deontologici.

Le Commissioni Regionali di disciplina si sono occupate lungamente del rapporto tra il procedimento disciplinare e il principio di legalità: si è a lungo sostenuto, anche quando era dubbio che la materia disciplinare rientrasse nell’ambito dell’applicazione delle sanzioni amministrative, che il principio di legalità operasse anche in tema di illeciti deontologici.

Tuttavia, la specificità delle norme in materia deontologica deve essere adeguatamente contemperata con il principio di cui all’art. 25 della Costituzione: se da un lato l’illecito deontologico deve essere concretamente individuabile attraverso l’indicazione della condotta punibile, dall’altro non è possibile una tassativa e precisa indicazione di tutti gli elementi della fattispecie, dovendosi ritenere rispettato il principio di legalità in presenza di una sufficientemente certa individuazione del principio o del precetto violato3 [ 3. La Corte di Cassazione, Sez. VI, con la sentenza n. 4720 del 23.03.2012ha affermato che: “va escluso ogni dubbio di costituzionalità dell’art. 147 L.N. Il disposto dell’art. 25 Cost. comma 2, interpretato nel necessario collegamento con il comma 1 dello stesso articolo, si riferisce, come anche ritenuto dalla Corte Costituzionale (sent. 100 del 1981), solo alla materia penale e non è di conseguenza estensibile a situazioni, come gli illeciti disciplinari, estranei all’attività del giudice penale. Certamente ciò non esclude che anche gli illeciti disciplinari debbano essere concretamente individuabili attraverso una specificazione della condotta punibile, rispettosa del principio di legalità, ma tale specificazione, come ritenuto sempre dalla Corte Costituzionale (sent. 191 del 1970), per di più con riferimento ad ipotesi di illecito costituente reato si attua non soltanto con la rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie ma, in alcune ipotesi, con l’uso di espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per giustificare se una determinata condotta l’abbia o meno violato”].

In questo senso, proprio le peculiarità del sistema di principi deontologici, improntati alla salvaguardia della dignità e della onorabilità della professione, necessita di una certa elasticità nell’individuazione di condotte che possano mettere a repentaglio l’indipendenza, l’imparzialità, la neutralità e la terzietà del professionista: la genericità del precetto, quindi, non si risolve nella violazione del principio di legalità.

A conferma di tali considerazioni, basti citare l’art. 147 della Legge n. 89/19134 [4. È  punito con la censura o con la sospensione fino ad un anno o, nei casi più gravi, con la destituzione, il notaio che pone in essere una delle seguenti condotte: a)  compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile; b)  viola in modo non occasionale le norme deontologiche elaborate dal Consiglio Nazionale del notariato; c)  fa illecita concorrenza ad un altro notaio, con riduzioni di onorari, diritti o compensi, ovvero servendosi dell’opera di procacciatori di clienti, di richiami o di pubblicità non consentiti dalle norme deontologiche, o di qualunque altro mezzo non confacente al decoro ed al prestigio della classe notarile] che individua l’interesse ritenuto meritevole di tutela con sufficiente determinazione e precisione e circoscrive di conseguenza la condotta punibile in quella idonea a compromettere quell’interesse protetto, condotta il cui contenuto, come sostenuto dal Giudice di legittimità, seppur non individuato nel suo specifico atteggiarsi, è integrato da norme di etica professionale oggettivamente enucleabili dal comune sentire della categoria in un preciso momento storico5 [5. In questo senso Cass. SS.UU. del 31.07.2012 n. 13617, Cass. Civ. Sez. IV del 23.03.2012 n. 4721, Cass. Civ. Sez. VI del 13.10.2011 n. 21203].
Se a ciò si aggiunge che la legge notarile è integrata e rafforzata dai precetti contenuti nel codice deontologico
6 [6. Si veda sul punto la sentenza del Tar del Lazio del 10.08.2010 n. 30580, a tenore della quale i principi deontologici possono obbligare i professionisti a comportamenti più precisi rispetto alle altre norme dell’ordinamento. Le violazioni dell’etica professionale, pur non incidendo sulla validità delle prestazioni, possono generale sanzioni per i professionisti], che sono necessariamente specchio del comune sentire di un dato momento storico, si può giungere alla conclusione che non è possibile la previsione di tutti i possibili comportamenti contrari ai doveri e ai principi deontologici e ciò non determina la violazione del principio di legalità.

IL CODICE DEONTOLOGICO DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI

Il codice deontologico della professione di dottore commercialista ed esperto contabile, approvato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili in data 9 aprile 2008, in attuazione dell’art. 29 lett. c) del decreto legislativo n. 139 del 2005, è il primo codice della categoria unificata.

Il testo contiene un’elencazione di principi a cui i professionisti devono uniformarsi nell’esercizio dell’attività. Integrità, onestà e correttezza (art. 6), obiettività ed imparzialità (art. 7), competenza, diligenza e qualità delle prestazioni (art. 8), indipendenza (art. 9), riservatezza (art. 10).

Si tratta di norme deontologiche che, seppur codificate, devono essere considerate con un approccio dinamico, tenendo quindi in considerazione l’ambiente socio economico in cui si collocano.

Per tale ragione, pur trattandosi di una normativa cogente, il codice deontologico dei dottori commercialisti ed esperti contabili non contiene una elencazione tassativa di condotte censurabili, dovendosi queste ultime riscontrare in ogni comportamento che, a norma del combinato disposto degli artt. 2 e 37 [7. Articolo 2 – contenuto del codice -  Il presente Codice contiene principi e regole che il professionista deve osservare nell’esercizio della professione. Il comportamento del professionista, anche al di fuori dell’esercizio della professione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa. Il professionista è tenuto alla conoscenza delle norme del presente codice, la cui ignoranza non lo esime dalla responsabilità disciplinare. - Articolo 3 – potestà disciplinare - L’inosservanza dei precetti, degli obblighi e dei divieti fissati dal presente codice e ogni azione ed omissione, comunque contraria al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili con le sanzioni disciplinari previste dalla legge. Le sanzioni devono essere adeguate alla gravità degli atti compiuti], sia contrario ai precetti, agli obblighi e ai divieti indicati nel codice, o comunque contrario al decoro e alla dignità della professione.

La normativa del codice deontologico va altresì coordinata con il regolamento per l’esercizio della funzione disciplinare territoriale, secondo la quale la responsabilità del professionista deve necessariamente essere accertata qualora risulti provata l’inosservanza dei doveri professionali dell’iscritto, consistenti non solo in azioni ed omissioni in violazione delle norme dell’Ordinamento generale (leggi o regolamenti), ma anche del Codice deontologico, il quale costituisce parametro per la corretta interpretazione dei doveri di dignità e decoro della professione a tutela dell’interesse pubblico.

L’assenza di tipizzazione dell’illecito disciplinare non viola il principio di legalità: a conferma di ciò, basti considerare che il regolamento per l’esercizio della funzione disciplinare stabilisce che il procedimento per l’accertamento dell’illecito debba svolgersi conformemente ai principi previsti dall’Ordinamento giuridico, in punto di legalità e precisa individuazione delle condotte integranti l’illecito. Il fatto che tale regolamento richiami, quali condotte censurabili, le violazioni dei principi generali del codice deontologico è ulteriore dimostrazione che in tale campo il principio di legalità e tassatività risulta correlato al dinamismo di regole che, per loro natura, sono il portato del contesto socio-culturale che le ha prodotte.

Le decisioni del Consiglio Nazione dei Dottori Commercialisti ed esperti contabili in materia disciplinare confermano tale assunto: in particolar modo, numerose pronunce ribadiscono che al professionista è richiesto, da un punto di vista deontologico, il rispetto di norme specifiche e generali previste dalla legge e dal relativo codice, “nonché di quelle derivanti dall’applicazione delle clausole generali della correttezza, della buona fede e della

diligenza propria dello svolgimento degli incarichi professionali” 8 [8. Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, 21 gennaio 2010 n. 3] e che “alcune condotte, pur se ammesse dall’ordinamento di diritto comune, possono comportare la violazione del codice deontologico qualora siano qualificabili come lesive dell’onore e del prestigio della professione o comportino la anteposizione degli interessi personali del professionista a quelli del cliente” 9 [9. Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, 12 novembre 2009 n. 48, 12 novembre 2009 n. 51].

I CODICI DEONTOLOGICI DEGLI AVVOCATI SPAGNOLI FRANCESI E TEDESCHI

Il codice deontologico dell’avvocatura spagnola, approvato con decreto reale n. 658 del 2001, consta di 21 articoli contenenti i precetti e i principi cui gli avvocati devono attenersi nell’esercizio dell’attività forense.

E’ lo stesso codice a ribadire, nel preambolo, l’importanza dei precetti in esso contenuti, stante la funzione sociale svolta dall’avvocatura e la necessità che certi valori vengano salvaguardati da norme etiche e deontologiche indispensabili non solo per la tutela del diritto di difesa, ma per la stessa preservazione dei più alti interessi dello Stato.

Stante il ruolo fondamentale dell’avvocato, “esperto di leggi e conoscitore delle strategie processuali e della tecnica giuridica”, diviene imprescindibile per l’espletamento della sua precipua funzione un codice di comportamento che consenta agli assistiti di esercitare pienamente i loro diritti.

In quest’ottica, i principi fondamentali dell’indipendenza, della dignità, dell’integrità, del segreto professionale e della libertà di difesa vengono messi in primo piano all’interno del codice: l’articolo 1, rubricato “Obbligazioni etiche e deontologiche”, prevede espressamente l’obbligo da parte dell’avvocato di rispettare i principi etici e deontologici della professione contenuti nella legge professionale e nel codice deontologico europeo10 [7. "Artículo 1.- Obligaciones éticas y deontológicas: 1. El abogado está obligado a respetar los principios éticos y deontológicos de la profesión establecidos en el Estatuto General de la Abogacía Española, aprobado por Real Decreto 658/2001, de 22 de junio, en el Código Deontológico aprobado por el Consejo de Colegios de Abogados de Europa (CCBE) el 28 de noviembre de 1998, y en el presente Código Deontológico aprobado por el Consejo General de la Abogacía Española, en los que en su caso tuvieren aprobado el Consejo de Colegios de la Autonomía, y los del concreto Colegio al que esté incorporado].

Le violazioni del predetto obbligo integrano ipotesi di illecito disciplinare, ancorché non siano delineati tassativamente tutti i comportamenti deontologicamente scorretti.

Vengono, dunque, individuati con precisione i principi fondamentali, elencati già nei primi articoli del codice: indipendenza (art. 2), libertà di difesa (art. 3), fedeltà (art. 4), riservatezza (art. 5). Qualsiasi condotta contraria ai principi suddetti, che metta a repentaglio il decoro della professione, integra illecito sanzionabile disciplinarmente.

Nel prosieguo del codice vengono ulteriormente indicati i parametri da rispettare per le eventuali incompatibilità, la pubblicità del professionista, il divieto di concorrenza sleale, il rapporto con i colleghi, con le autorità giudiziarie, con i clienti (in alcune ipotesi, sono esplicitamente indicati come contrari ai doveri deontologici e quindi illeciti, alcuni comportamenti; si tratta, però, di indicazioni del tutto esemplificative, che non hanno alcuna pretesa di esaustività e completezza).

In conclusione, le norme deontologiche per gli avvocati spagnoli non contengono alcuna indicazione tassativa degli illeciti, che vengono invece individuati in qualsiasi violazione dei precetti generali che devono caratterizzare l’attività dell’avvocato.

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L’esercizio dell’attività professionale in Francia è regolato dalla legge professionale n. 71-1130 del 31 dicembre 1971 e dal decreto n. 91-1197 del 27 novembre 1991, successivamente modificati, e, per quel che riguarda i precetti deontologici, dal Réglement Intérieur National (RIN), che può assimilarsi al nostro codice deontologico.

In esso vengono individuati i principi fondamentali che devono ispirare e guidare l’avvocato nell’esercizio della professione (art. 1), libertà, indipendenza, dignità, probità, coscienza, umanità11 [ 11. "Article 1- Les principes essentiels de la profession d'avocat (L. art. 1-I, alinéa 3, art. 3, alinéa 2 ; D. 12 juillet 2005, art. 1, 2 et 3 ; D. 27 novembre 1991, art. 183) :Profession libérale et indépendante: 1.1. La profession d'avocat est une profession libérale et indépendante quel que soit son mode d'exercice. 1.2. L'avocat fait partie d'un barreau administré par un conseil de l'ordre. Respect et interprétation des règles: 1.3. Les principes essentiels de la profession guident le comportement de l'avocat en toutes circonstances. L'avocat exerce ses fonctions avec dignité, conscience, indépendance, probité et humanité, dans le respect des termes de son serment. Il respecte en outre, dans cet exercice, les principes d'honneur, de loyauté, de désintéressement, de confraternité, de délicatesse, de modération et de courtoisie. Il fait preuve, à l'égard de ses clients, de compétence, de dévouement, de diligence et de prudence. Discipline: 1.4. La méconnaissance d'un seul de ces principes, règles et devoirs constitue en application de l'article 183 du décret du 27 novembre 1991 susvisé une faute pouvant entraîner une sanction disciplinaire”].

Inoltre, proprio nell’incipit del regolamento, all’art. 1, è ribadito come qualsiasi lesione dei principi essenziali sopra menzionati costituisca illecito deontologico, sanzionabile disciplinarmente, a prescindere da una concreta e tassativa elencazione delle condotte scorrette.

Analogamente a quanto accade in Spagna, quindi, anche nel RIN vengono enucleati tutta una serie di precetti che, benché non vengano poi tradotti in elencazioni compiute di comportamenti scorretti, consentono, stante la precisione con cui sono individuati, di ravvisare i vari illeciti deontologici.

Segreto professionale, correlato al dovere di riservatezza, conflitto di interessi, rispetto del principio del contraddittorio e pubblicità, sono gli altri aspetti problematici che il RIN affronta, predisponendo una serie di regole generali cui ogni professionista deve adeguarsi in ossequio ai principi generali.

Anche in questo caso, difettano indicazioni esaustive di condotte scorrette del professionista e la casistica riportata ha, per lo più, valore generale ed esemplificativo.

L’attività dell’avvocato francese viene inoltre regolamentata, da un punto di vista deontologico, anche con riferimento alla redazione degli atti, ai rapporti con la controparte, agli onorari, alle società professionali e ai rapporti con i propri subordinati.

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La professionale legale in Germania trova la propria fonte di regolamentazione nella normativa federale dell’avvocatura (Bundesrechtsanwaltsordnung – BRAO) e, per quanto riguarda i diritti e gli obblighi dell’avvocato, nel codice deontologico (Berufsordnung fr Rechtsanwälte – BORA).

Il BORA presenta una struttura analoga a quella del codice deontologico francese e spagnolo: nella prima parte, infatti, sono elencati i principi fondamentali che regolano la professione, in particolar modo la libertà, l’indipendenza (art. 1), la riservatezza (art. 2), il divieto di esercitare la propria attività in conflitto di interessi12 [12. § 1 Freiheit der Advokatur - (1) Der Rechtsanwalt übt seinen Beruf frei, selbstbestimmt und unreglementiert aus, soweit Gesetz oder Berufsordnung ihn nicht besonders verpflichten. (2) Die Freiheitsrechte des Rechtsanwalts gewährleisten die Teilhabe des Bürgers am Recht. Seine Tätigkeit dient der Verwirklichung des Rechtsstaats. (3) Als unabhängiger Berater und Vertreter in allen Rechtsangelegenheiten hat der Rechtsanwalt seine Mandanten vor Rechtsverlusten zu schützen, rechtsgestaltend, konfliktvermeidend und streitschlichtend zu begleiten, vor Fehlentscheidungen durch Gerichte und Behörden zu bewahren und gegen verfassungswidrige Beeinträchtigung und staatliche Machtüberschreitung zu sichern].

Nella parte successiva, il codice, invece, disciplina l’organizzazione dell’attività, svolta individualmente o in forma associata, la pubblicità, la specializzazione, i rapporti con i clienti, con i propri dipendenti e gli onorari.

Anche in questo caso, la normativa non contiene indicazione precisa di tutti i comportamenti integranti illecito deontologico, dovendosi ravvisare la condotta scorretta del professionista in ogni contegno che leda i principi generali indicati nel BORA.

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L’analisi testé compiuta porta dunque a ritenere non fondate eventuali ipotizzabili esigenze di allineamento delle norme deontologiche degli avvocati a quelle delle altre professioni liberali o di armonizzazione delle norme interne con quelle previste per gli avvocati degli altri paesi europei, nei quali non esiste, come si è visto, un’elencazione specifica delle condotte illecite.

Se si fa eccezione per le regole deontologiche previste per i magistrati, per i quali la tipizzazione delle condotte illecite può giustificarsi con l’esercizio di una particolare funzione pubblica di richiamo costituzionale, cosicché la previsione di illeciti tassativamente indicati è da ricollegarsi a tale particolare connotazione, non già ad una esigenza dell’apparato deontologico in sé stesso, si potrà arrivare alla conclusione della non necessità della tipizzazione delle condotte illecite per la validità di un sistema deontologico.

E’ difficile dunque comprendere quale sia stata la ragione che ha ispirato il legislatore della riforma a quella previsione contenuta nel comma 3° dell’articolo 3 della nuova legge professionale, vista anche la mancanza di lavori preparatori, sul punto, molto spesso illuminanti.

L’indicazione della tipizzazione delle condotte illecite compare, peraltro, per la prima volta, improvvisamente, nel testo della legge licenziato dal Senato il 23 novembre 2010, mentre non vi è traccia di tale previsione nel disegno di legge predisposto dal Consiglio Nazionale Forense il 2 ottobre 2008 e nel successivo testo approvato dallo stesso Consiglio il 27 febbraio 2009.

L’inserimento dell’inciso “per quanto possibile”, frutto invece della modifica apportata dalla Camera dei Deputati il 31 ottobre 2012, testo poi approvato definitivamente dal Senato il 21 dicembre 2012, è apparso come un tentativo di correzione della originaria previsione, nella consapevolezza, forse, della impossibilità di individuare, con sufficiente determinazione, tutte le innumerevoli condotte che possono porsi in contrasto con le regole sul corretto esercizio della professione.

Resta il fatto che il nuovo codice dovrà comunque rispettare tale volontà del legislatore, frutto, forse, di una avvertita esigenza di riaffermazione del principio di legalità.

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LA POSSIBILE TIPIZZAZIONE DELLE CONDOTTE ILLECITE IN OSSEQUIO ALLA LEGGE N. 247/2012

Il lavoro che il Consiglio Nazionale Forense dovrà svolgere per la riformulazione delle norme deontologiche e la eventuale, se possibile, tipizzazione delle condotte illecite, dovrà muovere, necessariamente dall’analisi interpretativa della norma.

Dal tenore letterale della stessa sembra potersi ricavare che tale tipizzazione dovrà riguardare, espressamente, le norme che rispondono “alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione”.

Sarà dunque necessario, preliminarmente, individuare tali regole di comportamento, all’interno delle altre che non rivestono quella “rilevanza pubblica” espressamente indicata dal legislatore e, successivamente, verificare la possibile tipizzazione di determinate condotte.

Nell’ambito di tale percorso, assai laborioso, si possono evidenziare due possibili soluzioni:

a) la specificazione di alcune condotte illecite, poste in essere in violazione di determinati principi generali, che incidono, come prevede la norma, sul corretto esercizio dell’attività professionale;
b) la tipizzazione di tutte le condotte più rilevanti dal punto di vista deontologico.

E’ indubbio che la seconda ipotesi porta con sé il rischio di una elencazione non esaustiva di tutti i comportamenti contrari ai doveri dell’avvocato, con conseguente possibilità di creare delle zone di impunità per condotte che non risultino previste con precisione o per ulteriori condotte illecite non codificate perché di “nuova generazione”.

Per ovviare a tali possibili conseguenze, nell’ipotesi indicata, sarà necessario prevedere ogni possibile condotta illecita e si renderà altresì necessario un aggiornamento continuo delle norme, onde sanare eventuali vuoti correlati anche alle evoluzioni della società.

Sarà compito esclusivo del Consiglio Nazionale Forense scegliere la soluzione più appropriata.

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