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PENALE - Sottrazione di banca dati e illecita duplicazione del supporto.

Scritto da Avv. Salvatore Frattallone. Pubblicato in Penale

banca dati

 

Mentre in primo grado la sottrazione, alla società che lo deteneva quale licenziataria, di un supporto informatico contenente un programma con una cospicua banca dati (relativa a potenziali clienti) era stato qualificata furto con destrezza, in appello la condanna era stata confermata sul diverso presupposto che l'uso di un computer dotato di masterizzatore avesse consentito all'imputato di effettuare in loco la copia del supporto originale.
La pronuncia era stata poi annullata con rinvio, poiché la S.C. aveva stabilito che oggetto del delitto di furto non potevano essere le cose immateriali o le opere dell'ingegno poiché bisognava che si trattasse di beni suscettibili di apprensione e impossessamento.

La Corte di rinvio sentenziava allora ritenendo che la duplicazione illegale della banca dati costituisse illecita duplicazione, di cui all'art. 171-bis, co. 2, l.d.a. La Cassazione, nuovamente adita, ha ora stabilito che non è ravvisabile il vizio di violazione di legge, per l'omessa notifica alla Commissione Europea della regola tecnica costituita dall'obbligo dell'apposizione del contrassegno SIAE, poichè la sentenza Schwibert (resa a norma dell'art. 234 del Trattato CEE dalla Corte di Giustizia C.E. in data 08.11.07) non esplica effetti nella fattispecie: essa si riferisce alla diversa disposizione dell'art. 171-ter, lett. d), l.d.a. (e ad altre norme collegate alla commercializzazione del supporto contenente opere dell'ingegno), non a violazioni sostanziali del diritto d'autore (come l'illecita duplicazione, la vendita o la detenzione per la vendita di supporti illecitamente duplicati), per i quali casi la mancanza del contrassegno riveste solo valore indiziario, anzi riprova dell'illecita duplicazione.

 

Cassazione penale, Sez. III, 24.02/23.03.2011, n° 11653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRUA   Giuliana, Presidente
Dott. PETTI    Ciro, Consigliere
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria, Consigliere
Dott. MULLIRI  Guicla I., Consigliere
Dott. RAMACCI  Luca, Consigliere
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da: difensore di S.C., nato il (omissis);
avverso la sentenza della Corte d'appello di Trento del 13.03.2010;
Udita la relazione svolta dal consigliere dott. Ciro Petti;
sentito il Procuratore generale nella persona del D'Ambrosio Vito, il quale ha concluso per l'annullamento con rinvio;
udito il difensore  della  parte  civile avv. Grimaldi Francesco Caroleo, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Voltattorni Francesco, il quale ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto
La Corte d'Appello di Trento, sezione, distaccata di Bolzano, con sentenza 29.05.2008, confermava quella resa il 09.11.2005 del Tribunale di Bolzano, con cui S.C. era stato condannato alla pena di mesi sei di reclusione ed € 500,00 di multa per il delitto di furto aggravato dalla destrezza (art. 624 e 625, n. 4, C.P.) in danno della s.r.l. (omissis), già s.r.l. (omissis).
All'imputato era stato contestato di essersi impossessato di un programma informatico (denominato "(omissis)" contenente un archivio di circa tre milioni di potenziali clienti, sottraendolo dagli uffici della predetta società che lo deteneva legittimamente in quanto titolare della licenza acquistata dalla società che aveva creato il programma, la s.r.l. (omissis) con sede in (omissis).
Il primo giudice aveva accertato che il S.C. - in precedenza dipendente di una società, la s.r.l. (omissis), collegata con la s.r.l. (omissis) - aveva avuto, come da lui stesso ammesso, la disponibilità del programma utilizzato per i corsi di formazione degli agenti di commercio - e si era reso responsabile del reato indicato perché, al momento di lasciare la società non aveva riconsegnato il dischetto stesso, sia quello originale che una copia pirata della quale comunque disponeva - e l'aveva invece portata in un'altra società, nella quale collaborava anche il fratello, che operava in un settore del tutto concorrenziale con la (omissis) ed usava identici metodi di ricerca della clientela.
La Corte d'appello ricostruiva in modo parzialmente diverso i fatti.
Secondo la Corte distrettuale, poiché l'imputato aveva libero accesso ai locali dove si svolgevano i corsi per gli agenti, nei quali veniva utilizzato il programma in questione, aveva ritenuto che il S.C. avesse introdotto in questi locali un suo computer dotato di masterizzatore ed aveva proceduto a copiare il dischetto originale nei locali della (omissis). Contro la sentenza di secondo grado proponeva ricorso il S.C. sulla base di due motivi. Con il primo deduceva l'erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione perché oggetto del delitto di furto non potevano essere le cose immateriali o le opere dell'ingegno - quale un programma informatico - ma era necessario che si trattasse di una cosa o di un bene suscettibile di apprensione e di impossessamento.
Con il secondo motivo contestava la sussistenza dell'aggravante Questa Corte riteneva fondato il primo motivo in esso assorbito il secondo ed annullava la decisione impugnata con rinvio rimettendo al giudice del rinvio anche il regolamento tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
A fondamento della decisione osservava che il fatto accertato non integrava il delitto di furto ma poteva configurare qualcuna delle fattispecie tipiche di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171 bis, commi 1 o 2 e più precisamente il delitto di illecita duplicazione.
Pertanto non essendo consentito al giudice di legittimità di verificare l'esistenza dei presupposti fattuali di un'eventuale applicazione al caso di specie dell'illecita duplicazione, annullava la sentenza impugnata con rinvio rimettendo al giudice del rinvio, previa verifica del rispetto del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, l'accertamento della sussistenza della duplicazione ed il regolamento tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.
La Corte del rinvio, ravvisata nella fattispecie l'ipotesi di cui al comma secondo dell'art. 171-bis per l'illecita duplicazione della banca dati, dichiarava prescritto il reato e confermava le statuizioni civili.
Ricorre per cassazione l'imputato per mezzo del proprio difensore, ai soli fini civili, deducendo:
1) il difetto di legittimazione della società (omissis) s.r.l. a costituirsi parte civile giacché, a seguito della modificazione dell'originaria imputazione, questa non può considerarsi né persona offesa né danneggiata perché era semplicemente l'utente licenziataria di una singola copia del programma che si assume illecitamente duplicato;
2) violazione di legge per l'insussistenza del reato contestato per l'omessa notifica alla Commissione Europea della regola tecnica costituita dall'obbligo dell'apposizione del contrassegno SIAE;
3) la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ed omessa motivazione sul punto per avere la Corte distrettuale omesso completamente di procedere al riscontro di compatibilità tra fatto ritenuto in sentenza e fatto contestato nonostante l'esplicita indicazione della Suprema Corte.
IN DIRITTO
Il ricorso va respinto perché infondato.
Con riferimento al primo motivo si rileva che la richiesta di esclusione della parte civile, formulata per la prima volta davanti a questa corte, è inammissibile per la sua tardività in quanto avrebbe dovuto proporsi davanti al giudice del rinvio prima dell'apertura del dibattimento durante la trattazione delle questioni preliminari (art. 491 C.P.P.), al fine di consentire l'immediata decisione della stessa. La mancata tempestiva richiesta preclude alla parte rimasta inerte la possibilità di sollevare la questione successivamente. E' bene vero che in relazione al delitto di furto, originariamente contestato, il problema della legittimazione della parte civile non si poneva, essendo palese che la società derubata aveva la qualifica di soggetto offeso e danneggiato dal reato, ma è altrettanto certo che, a seguito dell'annullamento da parte della corte e del rinvio al giudice del merito perché verificasse la configurabilità dell'ipotesi della duplicazione, la costituzione di parte civile ribadita davanti al giudice del rinvio, era chiaramente riferibile al nuovo reato ipotizzabile. Quindi la relativa eccezione doveva proporsi allora. In ogni caso la società licenziataria del programma deve considerarsi persona danneggiata dal reato perché la duplicazione dell'elenco dei clienti e la consegna ad una società concorrente della (omissis) poteva danneggiarla per lo sviamento della clientela, il giudice del rinvio doveva accertare l'idoneità del fatto a causare un danno e non la sua effettiva sussistenza che è rimessa al giudice civile.
Anche il secondo motivo è infondato perché non esplica alcun effetto nella fattispecie in esame la sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea dell'8.11.2007 nel processo Schwibert resa a norma dell'art. 234 del Trattato CEE perché essa si riferisce alla disposizione di cui all'art. 171-ter, lett. d) ed alle altre disposizioni incentrate sull'apposizione del contrassegno come condizione di commercializzazione del supporto contenente opere dell'ingegno, ma non riguarda in alcun modo le violazioni sostanziali del diritto d'autore, come l'illecita duplicazione, la vendita o la detenzione per la vendita di supporti illecitamente duplicati. In tali casi la mancanza del contrassegno assume solo un valore indiziario idoneo a suffragare insieme con altri elementi l'illecita duplicazione.
In proposito si deve puntualizzare che nella prassi sovente si fa riferimento alla mancanza del contrassegno, non per contestare un'autonoma figura di reato rispetto alla duplicazione, ma solo per evidenziare che la sua mancanza costituisce la riprova dell'illecita duplicazione. In questi casi non si pone alcun problema di disapplicazione della norma statale in contrasto con il diritto comunitario perché il fatto contestato non riguarda la mera mancanza del contrassegno nei casi in cui la sua apposizione sia prevista e quindi la violazione di una norma contenente una regola tecnica, ma la violazione sostanziale del diritto di autore ossia l'illecita duplicazione o detenzione di supporti illecitamente duplicati. L' inesistenza del contrassegno continua a mantenere valenza indiziaria della illecita riproduzione, ma non è elemento di tale significatività ed univocità da sorreggere sempre la conclusione in ordine alla abusiva o illecita riproduzione dell'opera protetta.
Infondato è anche il terzo motivo.
A prescindere dal rilievo che la nullità della decisione per la violazione del principio di correlazione tra fatto imputato e fatto ritenuto in sentenza si verifica allorché l'imputato venga condannato per un fatto diverso da quello contestato,come emerge dal riferimento alla sola sentenza di condanna contenuto nell'art. 522 C.P.P., comma 2, e non si riferisce alle sentenze di proscioglimento e più precisamente non si riferisce a quelle pronunciate a norma dell'art. 129 C.P.P., si osserva che nella fattispecie non si è verificata la dedotta violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza. Secondo l'opinione prevalente presso questa Corte non ricorre il dedotto vizio di difetto di correlazione quando l'imputato attraverso l'iter del processo sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Cass. Sez. Un. 19.06.1996). Invero secondo l'opinione prevalente in giurisprudenza, per valutare la sussistenza del vizio, non si deve adottare un criterio strutturale, imperniato sul mero raffronto tra l'accusa e le emergenze dibattimentale, a prescindere dall'effettiva lesione del diritto di difesa, ma al contrario si deve adottare un criterio teleologico funzionale imperniato proprio sulla violazione del diritto di difesa. In base a tale principio non si verifica alcun difetto di correlazione quando la diversità conduca all'assoluzione dell'imputato o alla condanna per un fatto che, ancorchè diverso da quello contestatola prospettato dallo stesso imputato quale elemento a sua discolpa ovvero per farne derivare,in via eventuale, una sua penale responsabilità per un reato di minore gravità o per ottenere una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia.
Nella fattispecie, come risulta dalla narrativa del fatto, il tribunale aveva ritenuto che il prevenuto si fosse impossessato del programma mediante sottrazione del supporto originale che lo conteneva. La corte territoriale nel primo giudizio, come risulta dalla stessa sentenza di questa Corte e come sopra precisato, aveva ricostruito in maniera diversa il fatto nel senso che l'impossessamento del programma non era avvenuto mediante la sottrazione del supporto originale che lo conteneva, ma mediante la masterizzazione ossia mediante la copiatura del programma originale.
Il prevenuto nel ricorso per cassazione non aveva denunciato la violazione del principio di correlazione tra fatto imputato e fatto ritenuto in sentenza, ma aveva dedotto che il fatto ritenuto dalla Corte d'appello non potesse configurare gli estremi del delitto di furto contestato ma tutt'al più un'illecita duplicazione. Questa Corte ha ritenuto fondato l'assunto del ricorrente, ma, non avendo accesso agli atti e non essendo giudice del merito,ha demandato alla Corte distrettuale il compito di verificare in concreto la configurabilità della duplicazione di cui all'art. 171-bis l.d.a.
E' ben vero che questo Corte ha invitato il giudice del merito a verificare anche se l'immutazione rispettasse i principi di cui agli artt. 521 e 522 C.P.P., ma trattasi di un invito superfluo, posto che la stessa Corte di legittimità aveva dato atto che il fatto era stato ricostruito in maniera diversa dalla corte distrettuale nella sentenza impugnata e tale modificazione non era stata contestata dal ricorrente il quale anzi l'aveva utilizzata a propria difesa per dimostrare che il fatto così come ricostruito dalla Corte territoriale non configurava il delitto di furto, ma poteva configurare un'illecita duplicazione. La Corte del rinvio si è quindi limitata a qualificare giuridicamente il fatto già accertato dalla Corte distrettuale nella sentenza annullata e non contestato dal ricorrente in Cassazione.
La Corte del rinvio, avendo confermato le statuizioni civile legittimamente ha condannato l'imputato anche al rimborso delle spese del giudizio di cassazione a nulla rilevando che in sede di legittimità il ricorso del prevenuto sia stato accolto, posto che l'illiceità del fatto è rimasta sia pure con una denominazione diversa.

P.Q.M.

La Corte letto l'art. 616 C.P.P.;
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24.02.2011.
Depositato in Cancelleria il 23.03.2011

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