Penale

PENALE - Copie autentiche e falso materiale.

Scritto da Avv. Salvatore Frattallone. Pubblicato in Penale

 

copia autentica

Che tipologia di falsità in atti è ravvisabile nell'alterazione d'una copia autentica dell'originale di un atto?

La fattispecie è stata oggetto, in passato, di diverse interpretazioni, in dottrina e in giurisprudenza.
Dal 2000 però la S.C. ha spiegato, fuor d'ogni dubbio, che il fatto - anziché quale falsità nella formazione di copie false, ex art. 478 C.P. (falsità materiale commessa da un pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti) - deve venire penalmente perseguito ex art. 476 C.P. in relazione all'art. 482 C.P.
Trattasi, infatti, di falsità materiale commessa dal privato in atto pubblico, atteso che l'immutatio veri concerne qualsivoglia alterazione della copia dopo che il pubblico ufficiale ne ha formato e rilasciato copie in forma legale:

la condotta di falso materiale incide, invero, sull'autenticazione di conformità (recante la sottoscrizione del pubblico ufficiale) della copia rispetto all'atto pubblico originale.
Dopo che la copia autentica è stata tratta dal pubblico ufficiale, essa non può venire alterata da altri, poiché ciò che rileva è la natura fidefacente della certificazione di conformità all'originale, talché ogni modificazione apportata anche all'attestato del contenuto degli atti, rientra comunque, dopo il rilascio in forma legale, nella previsione dell'aggravante di cui al comma 2, dell'art. 476 C.P., in relazione all'art. 482 C.P.

Con la seconda pronuncia del novembre 2010 qui di seguito riportata, poi, la S.C. ha ribadito l'incontestato suddetto orientamento, precisando che l'alterazione di copia informale di un atto pubblico - segnatamente, di una mera fotocopia, priva della certificazione di "copia autentica", che riproduca solo informalmente l'atto pubblico originale - non integra il reato di cui al combinato disposto degli artt. 476 - 482 C.P. (sussistente soltanto in presenza di falso materiale di copie autentiche di atti pubblici), né il meno grave delitto di cui all'art. 485 C.P. (relativo alla falsità di scritture private).

 

Cass. Pen., Sez. V, 06.11/06.12.2000, n° 12731 (n° 1674)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
dott. Bruno Foscarini, Presidente
dott. Carlo Casini, Consigliere
dott. Andrea Colonnese, Consigliere
dott. Angelo Di Popolo, Consigliere
dott. Aniello Nappi, Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da N.P., n. a (omissis) avverso la sentenza della Corte d'Appello di Potenza depositata il 31.05.2000;
sentita la relazione svolta dal Consigliere dott. Aniello Nappi;
udite le conclusioni del P.M., Dr. A. Galasso, che ha chiesto l'a.s.r. per prescrizione;
udito il difensore, Avv. M. Ingarrica;
Fatto e diritto
Il ricorrente impugna per cassazione la sentenza che ne ha confermato la dichiarazione di colpevolezza in ordine al delitto di falso per alterazione della copia notarile di un contratto di finanziamento. Propone quattro motivi d'impugnazione.
Con il primo motivo il ricorrente deduce nullità delle sentenze di merito per violazione dell'art. 521 C.P.P., lamentando di essere stato tratto a giudizio come autore materiale della falsità contestatagli e di essere stato dichiarato colpevole, già in primo grado, di concorso morale in tale falsità.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce mancanza di prova circa il suo preteso apporto causale alla consumazione del delitto.
Con il terzo motivo deduce che il fatto contestato non costituisce reato, perché non rientra nell'ambito di previsione dell'art. 478 C.P., richiamato nel capo d'imputazione, in quanto questa norma punisce la formazione della copia falsa non l'alterazione della copia autentica.
Con il quarto motivo, infine, deduce che il fatto contestato, essendo stato commesso in epoca antecedente il 14.10.91, è prescritto, in quanto punito dall'art. 478 C.P. con pena inferiore a cinque anni.
Il primo motivo del ricorso è inammissibile ai sensi dell'art. 606, co. 3, C.P.P., perché il ricorrente non aveva eccepito la dedotta violazione dell'art. 521 C.P.P. nei motivi d'appello. E nella giurisprudenza di questa Corte è indiscusso che "il difetto di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, non comporta nullità di ordine generale assoluta ed insanabile: ne consegue la sua indeducibilità per la prima volta in sede di legittimità ove il vizio concerna la sentenza di primo grado ed esso non sia stato denunciato in appello" (Cass., Sez. I, 19.09.95, m. 202536).
Il secondo motivo è inammissibile ancora ai sensi dell'art. 606, co. 3, C.P.P., perché propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a prove legittimamente acquisite e plausibilmente valutate.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass., Sez. II, 21.12.93, m. 196955).
Il terzo e il quarto motivo del ricorso sono infondati.
In realtà è discussa in dottrina e in giurisprudenza la punibilità dell'alterazione di copie autentiche che non tengano luogo degli originali (art. 492 C.P.), la cui contraffazione è punita dall'art. 478 C.P.
Secondo una parte della dottrina l'alterazione di questi documenti non è prevista da nessuna norma del codice penale, sicché si avrebbe una lacuna legislativa e dovrebbe escludersi la punibilità dell'alterazione delle copie autentiche, come degli attestati, posto che il secondo comma dell'art. 478 C.P. richiama la medesima condotta descritta nel primo.
Altri ritengono che debba considerarsi punibile a norma dell'art. 478 C.P. l'alterazione sia delle copie autentiche, per ragioni sistematiche (Cass., Sez. III, 15.01.1965, m. 099431), sia degli attestati, per la maggiore genericità del secondo comma (Cass., Sez. V, 09.10.70, m. 115848).
Sembra preferibile, però, la tesi dottrinale e giurisprudenziale che riconduce all'art. 476 C.P. l'alterazione delle copie autentiche e, quindi, anche degli attestati del contenuto di atti (Cass., Sez. III, 19.12.62, Riv pen., 1984, 481), in quanto la seconda tesi si risolve in un'inammissibile interpretazione analogica, mentre la prima, cui si richiama il ricorrente, omette di considerare che, pur ritenendo esclusi dall'art. 476 C.P. gli atti derivativi, l'alterazione della copia dopo il rilascio in forma legale vi sarebbe comunque riconducibile, in quanto incide sull'autenticazione che è atto pubblico originale.
Il reato così qualificato dovrebbe considerarsi aggravato ai sensi dell'art. 476, co. 2, C.P., essendo fidefacente l'atto di autenticazione della copia. Tuttavia tale aggravante non è contestata; e, quindi, il reato risulta estinto per prescrizione, essendo applicabile la pena prevista dall'art. 482 C.P., inferiore ai cinque anni di reclusione.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.
Rigetta il ricorso quanto alle statuizioni civili della sentenza impugnata.
Roma, 31.10.2000
Depositata in Cancelleria il 06.12.2000

* * *

Cassazione pen., Sez. II, 03/26.11.2010, n° 42065

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Antonio Eesposito, Presidente
Dott. Giuliano Casucci, rel. Consigliere
Dott. Laurenza Nuzzo, Consigliere
Dott. Alberto Macchia, Consigliere
Dott. Giuseppe Bronzini, Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da R.V., n. il (omissis); avverso la sentenza n° 4159/2006 della Corte d'Appello di Napoli del 14.07.2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in pubblica udienza del 03.11.2010 la relazione fatta dal Consigliere, Dott. Giuliano Casucci;
udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Giuseppe Volpe, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio relativamente alla condanna per il capo A); con rinvio per la determinazione della pena; rigetto nel resto;
udito, per la parte civile, l'Avv. Aleffi per (omissis) Assicurazioni S.p.a. e l'avv. Leserre per (omissis) ed altri, che hanno concluso per il rigetto e la condanna alle spese;
udito il difensore, avv. Papadia, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per il capo A, perché il fatto non sussiste, e per il capo B per prescrizione, e comunque l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 14.07.2009, la Corte d'Appello di Napoli, 8^ Sezione penale, in parziale riforma della sentenza del GIP del Tribunale di S.M. Capua Vetere, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'appellante (omissis) in ordine alla contravvenzione di cui al capo C), perché estinta per intervenuta prescrizione; determinava la pena per i residui reati in continuazione in tre anni otto mesi di reclusione; condannarsi (omissis) alle spese del grado in favore delle parti civili costituite. Confermava nel resto la sentenza impugnata, con la quale (omissis) era stato dichiarato colpevole dei delitti di falso (art. 476 C.P., commi 1 e 2, art. 482 C.P., art. 61 C.P., n° 2), per avere contraffatto la procura generale alle liti del notaio (omissis) di Diamante con la falsa attribuzione del potere di incassare somme per conto dei rappresentati; di truffa ai danni dei liquidatori di (omissis) Assicurazioni s.p.a. e di appropriazione indebita in danno dei suoi clienti della somma di L. 470 milioni costituente liquidazione per indennizzo; tentata estorsione in danno dell'avv. (omissis) a mezzo di lettera anonima, dal contenuto minaccioso e accompagnata da un proiettile, finalizzata a costringerla a rinunciare a gran parte dei suoi onorari.
Contro tale decisione ha proposto tempestivo ricorso l'imputato, a mezzo del difensore, che ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi:
- violazione di legge in relazione all'art. 476 C.P., insussistente perché l'atto utilizzato è copia non autentica, del quale è inverosimile che non sia stata verificata l'autenticità da parte del liquidatore;
- mancanza di motivazione in ordine al delitto di truffa, perché la somma era stata depositata presso ufficio postale e perché a tanto era stato autorizzato da (omissis) (informato del deposito) e dagli altri eredi;
- mancanza di motivazione in ordine al delitto di tentata estorsione, perché il risultato della consulenza disposta dal P.M. sui caratteri della macchina da scrivere, con la quale era stata compilata la lettera di minaccia, è stato smentito da consulenza di parte;
- omessa valutazione in ordine alla richiesta di qualificare il fatto come violenza privata ex art. 610 C.P., stante l'insussistenza del fine di ingiusto profitto;
- andavano concesse le attenuanti generiche, perché la sola gravità del fatto e le funzioni svolte non ne giustificavano il diniego.
Con motivi nuovi, il ricorrente personalmente torna ad illustrare le doglianze proposte ed eccepisce la maturata prescrizione al rilievo che i periodi di sospensione devono, esser tenuti in conto per il termine massimo di sessanta giorni.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è fondato.
La Corte di appello ha erroneamente invocato l'art. 492 C.P., perché il documento falsificato era fotocopia informale, cioè non autentica, dell'originale.
Va invero ribadito che "integra il reato di cui agli artt. 476 e 482 C.P. l'alterazione di copie autentiche di atti pubblici" (Cass. Sez. V, 06.11/06.12.2000, n° 12731), sicché deve escludersi la sussistenza del reato nel caso di alterazione di copie informali, mentre la sua attitudine a trarre in inganno vale, in caso di uso, a qualificare il documento alterato come artificio (Cass. Sez. V, 04.03/08.04.1999 n° 4409).
Nè è configurabile il meno grave reato di cui all'art. 485 C.P., che ha ad oggetto la falsificazione delle scritture privare. Tale non è la fotocopia, il cui uso può avere rilievo penale solo nel caso in cui riproduce una scrittura privata falsificata (cfr. Cass. Sez. V, 09.06.1976 n° 6865). La sentenza per questo capo deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, perché formulato con considerazioni di tipo fattuale, sulla condotta serbata dal ricorrente e sulla valutabilità della stessa come dimostrativa della sua buona fede; ovvero sull'asserita (peraltro in maniera generica) esistenza di autorizzazione in tal senso da parte dei suoi clienti.
3. Per le stesse ragioni è inammissibile il terzo motivo di ricorso, perché al fine di criticare la motivazione della sentenza impugnata, richiama il contenuto degli atti del processo (in particolare una consulenza di parte) di cui la sentenza impugnata non fa cenno, senza spiegare se con i motivi di appello si era specificamente sollecitata la considerazione del diverso risultato del parere dell'esperto nominato dall'imputato.
4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato, perché la sentenza impugnata ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica come tentativo di estorsione del fatto addebitato al capo D), avendo indicato la finalità di profitto. Tale parte della motivazione non è stata criticata, se non in maniera generica con l'assunto secondo il quale "manca del tutto la finalità di procurare a sé o ad altri ingiusto profitto".
5. Ancora in maniera inammissibile è svolto il quinto motivo di ricorso, sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, perché si critica (anche con i motivi aggiunti) la motivazione adottata sul punto in maniera assolutamente generica, non spiegandosi per quale ragione gli elementi valutati dalla Corte territoriale (la gravita del fatto e la condotta serbata dall'imputato contraria all'elementare deontologia professionale) sarebbero inidonei a giustificare la decisione, sicché la doglianza è proposta in violazione dell'art. 581 C.P.P., lett. c), che impone che ogni richiesta sia giustificata dall'indicazione specifica delle ragioni di diritto (e degli elementi in fatto) a sostegno della richiesta stessa, violazione sanzionata con l'inammissibilità dall'art. 591 C.P.P., comma 1, lett. e).
6. L'invocata prescrizione non è ancora maturata, perché essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata prima dell'entrata in vigore della L. n° 251/2005,trovano applicazione i previgenti termini e la precedente regola della sua decorrenza (cfr. Cass. SS.UU. 29.10/10.12.2009 n° 47008), sicché, per effetto della ritenuta e non contestata continuazione, il calcolo deve essere effettuato a far data dal 09.01.2003 (data di consumazione dell'ultimo reato di tentata estorsione) anche per il delitto di truffa e appropriazione indebita sub b), che quindi, secondo il periodo ordinario di sette anni e mezzo cui vanno aggiunti i periodi di sospensione per effetto dei rinvii disposti a richiesta di parte da calcolarsi per intero (e non per sessanta giorni: cfr. Cass. Sez. I, 04.10/01.12.2008 n° 44609; Cass. Sez. V, 23.04/11.08.2008 n° 33335) cioè, per un anno (secondo quanto calcolato dall'impugnata sentenza), si prescriveranno il 09.08.2011.
7. L'annullamento in relazione al capo a), individuato dai giudici di merito come reato più grave sul quale sono stati effettuati gli aumenti per la continuazione, comporta la restituzione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuova quantificazione della pena in ordine ai residui reati.
8. La statuizione di conferma della condanna per i reati di cui ai capi b) e d) comporta l'accoglimento della richiesta di liquidazione delle spese in favore delle costituite parti civili, spese che si liquidano come in dispositivo, tenuto conto della complessità e rilevanza economica delle questioni.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al delitto di falso di cui al capo a), perché il fatto non sussiste e dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la determinazione della pena in ordine ai residui reati.
Rigetta nel resto il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione in favore delle parti civili delle spese dalle stesse sostenute in questo grado di giudizio liquidate in € 3000,00 oltre spese generali I.V.A. e C.P.A. per la parte civile (omissis) Assicurazioni S.p.a. e in € 4.000,00 oltre spese generali, IVA e CPA per le parti civili (omissis).
Così deciso in Roma, il 03.11.2010.
Depositato in Cancelleria il 26.11.2010

Stampa