Penale

PENALE - Acquisizione indebita di fotografie dell'ufficio di parlamentare

Scritto da Avv. Salvatore Frattallone. Pubblicato in Penale

Parlamento

La Suprema Corte si è occupata del delitto di cui all'art. 615-bis C.P., sotto due peculiari profili.
Da un lato ci si é chiesti se l'ufficio pubblico sito in un palazzo istituzionale e riservato all'attività politica di un deputato, accessibile ai dipendenti e ai visitatori dotati di regolare permesso di accesso, sia da considerasi quale privata dimora: in caso affermativo, infatti, colui che si procuri indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata lì svolgentesi dovrebbe venire perseguito e punito ex art. 614 C.P.
D'altro lato ci si è domandati se lo scatto non autorizzato di fotografie, ivi ritraenti il parlamentare interessato e/o condotte che lo riguardino, debba ritenersi indebito e se la natura indebita dell'acquisizione d'immagini vada desunta dall'uso di determinati strumenti, quali teleobiettivo o telefono cellulare.

La Cassazione, richiamato il principio di diritto enunciato dalla Corte Costituzionale in materia di captazione d'immagini in luoghi di privata dimora (cfr. Co.Cost., Sent. n° 149/08), ha stabilito che, in ogni caso, se l'attività filmata è accessibile visivamente da chiunque, ovverosia se possa essere liberamente osservata dagli estranei senza ricorrere a particolari accorgimenti, allora non può invocarsi l'area di tutela del diritto alla riservatezza di cui all'art. 14 Cost. (cioè, non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre altresì - secondo l'ormai costante insegnamento - che avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi).
Però la Cassazione ha aggiunto un particolare: ha precisato che il termine "chiunque" va inteso nel senso di "chiunque abbia la possibilità di frequentare un determinato luogo dal quale sia visibile il domicilio o la dimora", talché, a prescindere dalla inverosimile qualificazione di quell'ufficio come privata dimora, bisogna concludere che, comunque, l'attività che lì avveniva era visibile da chiunque potessi legittimamente avervi accesso, transitarvi e volgere lì lo sguardo o scattarvi delle foto.

 

Cass. Pen., Sez. V, Sent. 14.05/04.09.09 n° 34230

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COLONNESE Andrea, Presidente
Dott. FERRUA Giuliana, Consigliere
Dott. AMATO Alfonso, Consigliere
Dott. MARASCA Gennaro, rel. Consigliere
Dott. SCALERA Vito, Consigliere
ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da: A.G.E., n. il (omissis), e D.N.P., nato il (omissis);
avverso la Sentenza del 15.10.08 della Corte d'Appello di Roma;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Gennaro Marasca;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Dott. Enrico Delehaye, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato limitatamente al capo A) e per il rigetto nel resto del ricorso;
Udito il difensore della parte civile, Avv. Lecis, che ha concluso per la inammissibilità o il rigetto de ricorso per i reati di cui agli artt. 595, 57 e 615-bis C.P.;
Udito il difensore degli imputati, Avv. Paolo Mazzanti, in sostituzione dell'Avv. Carlo Federico Grosso, che ha concluso per l'annullamento della sentenza impugnata;
Svolgimento del processo.
Il (omissis), sul settimanale (omissis), veniva pubblicato un articolo, corredato di fotografia, di critica dei comportamenti dell'ex (omissis) della Camera dei deputati onorevole (omissis), la quale avrebbe mobilitato molti dipendenti della Camera per il servizio d'ordine al suo matrimonio ed avrebbe utilizzato una delle sue assistenti parlamentari come baby sitter.
La fotografia, non autorizzata dall'interessata, rappresentava l'ufficio privato dell'on. (omissis) a Palazzo (omissis), ove vi era anche un lettino da bambino, che avrebbe ospitato la figlia della (omissis).
Per tale fatto, nel quale il P.M. ravvisava i reati di cui agli artt. 57, 595 e 615-bis C.P., i due imputati, D.N.P., autore dell'articolo, e A.G.E., direttore del settimanale, venivano assolti dal G.U.P. presso il Tribunale di Roma con sentenza emessa in data 20.02.02 dalla diffamazione e dall'omesso controllo per legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica e dalla interferenza nella vita privata perché il fatto non costituisce reato.
A seguito di impugnazione del P.G. presso la Corte di Appello di Roma e della parte civile, i due imputati venivano rinviati a giudizio dalla Corte di Appello di Roma.
Con sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 23.06.06, venivano condannati, anche al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, D.N.P. per il delitto di diffamazione a mezzo stampa e A.G.E. per la violazione dell'art. 57 C.P., sul presupposto che dall'istruttoria dibattimentale era emerso non essere vero che i dipendenti fossero stati mobilitati dalla on. (omissis) e che l'assistente fosse stata addetta alla sorveglianza della bambina. Dal reato di cui all'art. 615-bis C.P., gli imputati venivano, invece, assolti; il D.N.P. per non aver commesso il fatto e l' A.G.E. perché il fatto non costituisce reato.
In seguito ad appello degli imputati e della parte civile ai soli effetti civili con riferimento all'assoluzione dell' A.G.E. dal delitto di cui all'art. 615-bis C.P., la Corte di Appello di Roma, con sentenza emessa in data 15.10.08, dichiarava estinti per prescrizione i reati di cui agli artt. 595 e 57 C.P., confermando, però, la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, e condannava, evidentemente ai soli effetti civili, l' A.G.E. per il reato di cui all'art. 615-bis C.P., per la indebita intromissione nella sfera strettamente personale dell'on. (omissis).
Con il ricorso per cassazione gli imputati, dopo avere ricostruito la vicenda giudiziaria, deducevano:
1) la violazione ed errata interpretazione dell'art. 595 C.P., in relazione all'art. 51 C.P., e art. 21 Cost., nonché illogicità della motivazione ed omessa valutazione di una prova decisiva in ordine al delitto di diffamazione ed alla violazione dell'art. 57 C.P., perché i fatti narrati e criticati erano veri o quanto meno apparivano oggettivamente come tali;
2) la violazione ed errata interpretazione dell'art. 615-bis C.P., nonché motivazione illogica ed omessa valutazione di prove decisive in ordine alla affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 615-bis C.P., perché l'ufficio era destinato allo svolgimento di attività politico-istituzionali e non era un luogo privato, anche perché l'accesso era consentito a chiunque legittimamente frequentasse Palazzo (omissis).
Inoltre il direttore non poteva essere ritenuto responsabile di tutto ciò che veniva stampato e che fosse redazionale.
Motivi della decisione.
È infondato il primo motivo di impugnazione.
I giudici del merito hanno accertato - e ciò del resto non è stato contestato - che la on. (omissis) non aveva predisposto nessun servizio d'ordine per il suo matrimonio con personale dipendente degli uffici della Camera.
In effetti una parte degli invitati al matrimonio spontaneamente aveva effettuato alcuni controlli che potevano dall'esterno apparire come un servizio d'ordine organizzato.
Il fatto narrato - dipendenti della Camera mobilitati dalla on. (omissis) per il servizio d'ordine -, sul quale è stata poi sviluppata la critica sui privilegi della casta e sull'uso di personale pubblico a fini privati, non è, pertanto, risultato vero, mentre, invece, sarebbe stato di facile accertamento.
Il fatto che dall'esterno poteva apparire che vi fosse stato un servizio d'ordine non escludeva la necessità di accertare se davvero vi fosse stato un ordine dall'alto, ovvero una mobilitazione di personale pubblico per fini privati.
La mancanza del requisito della verità del presupposto della critica, che non appare affatto marginale nella economia dell'articolo, non consente di ravvisare, come correttamente stabilito dalla Corte di merito, la esimente di cui all'art. 51 C.P.
Resta ferma, pertanto, la condanna agli effetti civili dell' A.G.E. e del D.N.P. rispettivamente per i reati cui agli artt. 57 e 595 C.P.
È appena il caso di aggiungere che, per quanto riguarda l'attività di baby sitter svolta dall'assistente, la Corte di merito aveva accertato che, sia pure occasionalmente, tale attività era stata svolta.
È fondato, invece, il secondo motivo di impugnazione concernente la condanna agli effetti civili dell'A.G.E. per il delitto di cui all'art. 615-bis C.P.
Tale norma punisce chi si procuri indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati dall'art. 614 C.P.
I problemi, che avrebbero dovuto affrontare e risolvere i giudici di merito, erano pertanto due;
il primo consisteva nello stabilire se l'ufficio di Palazzo (omissis) riservato agli ex (omissis) della Camera fosse o meno da parificare ad uno dei luoghi indicati dall'art. 614 C.P., ovvero ad un luogo di privata dimora:
mentre il secondo concerneva l'accertamento sulla acquisizione indebita della fotografia.
Ebbene tali accertamenti non sono stati compiuti dalla Corte di merito, che ha dato per scontato fatti che andavano, invece, verificati.
In effetti appare difficile qualificare come luogo di privata dimora un ufficio pubblico ove si svolga l'attività politico-istituzionale del deputato beneficiario dello stesso, non potendo tale attività essere qualificata privata.
Inoltre le modalità di uso del predetto ufficio, per come sono state descritte dalla stessa on. (omissis), non consentono di qualificarlo privata dimora, dal momento che si trattava di ufficio mai chiuso a chiave e, quindi, accessibile da parte di tutti i dipendenti di Palazzo (omissis) e dei visitatori autorizzati.
Anche la indebita acquisizione della fotografia è difficile da ritenere, dal momento che essa non è stata scattata con l'uso di strumenti - teleobiettivo, telefono cellulare e simili - atti a qualificare indebita la ripresa.
Inoltre, come si è già detto, l'ufficio non era sempre sorvegliato ed era accessibile da parte del personale e delle persone munite di regolare permesso di accesso al Palazzo.
Quanto più specificamente alla captazione di immagini in luoghi di privata dimora bisogna rilevare che, quand'anche l'ufficio di cui si discute si volesse considerare tale, la Corte Costituzionale, sia pure ai fini di valutare la costituzionalità dell'art. 266 C.P.P., co. 2, nella parte in cui non estende la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti a qualsiasi captazione di immagini in luoghi di privata dimora (vedi Sentenza n° 149/08), dopo avere chiarito che l'art. 14 Cost., tutela il domicilio sotto due distinti aspetti, ovvero come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo, ed il diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi, ha stabilito che, affinché scatti la protezione dell'art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi.
Se l'azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può evidentemente accampare un diritto alla riservatezza.
Insomma - ha concluso la Corte - se l'attività filmata è accessibile visivamente da chiunque si è fuori dall'area di tutela prefigurata dalla norma costituzionale de qua.
Naturalmente tale affermazione può, e deve, essere riferita anche alla attività fotografata, dovendosi precisare, altresì, che con il termine chiunque deve intendersi chiunque abbia la possibilità di frequentare un determinato luogo dal quale sia visibile il domicilio o la dimora.
Naturalmente un siffatto indirizzo della Corte Costituzionale deve essere tenuto in conto per una corretta interpretazione dell'art. 615-bis C.P., il quale, pertanto, non poteva tutelare la riservatezza dell'ufficio dell'on. (omissis), non solo per le considerazioni svolte nella prima parte della trattazione del motivo di impugnazione, ma anche perché esso domicilio era visibile da chiunque.
Per tutte le ragioni indicate la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente alla condanna agli effetti civili con riguardo al capo A) della rubrica.
I ricorsi debbono, invece, essere rigettati nel resto e il D.N.P. deve essere condannato a pagare le spese processuali.
Appare opportuno, tenuto conto delle decisioni assunte, dichiarare le spese di difesa della parte civile costituita compensate.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condanna agli effetti civili con riguardo al reato di cui al capo A). Rigetta nel resto i ricorsi e condanna il D.N.P. al pagamento delle spese processuali. Dichiara compensate le spese di difesa della parte civile costituita.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14.05.2009.
Depositato in Cancelleria il 04.09.2009

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