Resp. sanitaria

COMMERCIALE - Divieto d'immistione del socio accomandante.

Posted in RESPONSABILITÀ SANITARIA

Ciò che caratterizza la società in accomandita semplice è la presenza di due distinte categorie di soci: i soci accomandatari, che rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti, che invece hanno una responsabilità limitata al conferimento eseguito o promesso. 

A tale differenza corrisponde un diverso loro potere nella gestione della s.a.s.
Specificamente, l'amministrazione spetta esclusivamente ai soci accomandatari, mentre per il socio accomandante è previsto, all'art. 2320, co. 1, c.c., un vero e proprio divieto di immistione, che gli preclude il compimento di tutti gli atti di amministrazione (interni ed esterni) che si concretino nel governo e/o nella direzione degli affari sociali, ad esclusione degli atti di mero ordine e di quelli esecutivi. Tale divieto è assoluto per gli atti di gestione "interna",

sempre che il loro contenuto concreto sia lesivo del criterio di correttezza della gestione sociale, in conformità alla tipologia societaria. Viceversa, per gli atti di gestione "esterna", il socio accomandante può persino trattare o "concludere" affari in nome della società, purchè sia munito di un'apposita procura speciale per singoli affari. Invero, il socio accomandante può altresì prestare la propria opera, manuale o intellettuale, all'interno della società, purchè tale sua attività sia svolta sotto la direzione dei soci accomandatari e, perciò, solo in posizione subordinata.
Il divieto di cui all'art. 2320, co. 1, c.c. "applica il principio di tipicità posto dall'art. 2249 c.c., mirando ad impedire che la società in accomandita semplice perda i suoi connotati essenziali, primo tra i quali la conferibilità soltanto ai soci accomandatari dell'amministrazione della società (art. 2318 c.c., comma 2), presupposto e, al medesimo tempo, effetto della loro responsabilità solidale ed illimitata per le obbligazioni sociali (art. 2313 c.c. comma 1)" (Cass. civ., 2854/1998).
Pertanto tale divieto è posto a tutela dell'interesse dei terzi che facciano affidamento sulla responsabilità illimitata del socio accomandatario e, dunque, la sua violazione comporta - per il socio accomandante - la perdita del beneficio di limitazione di responsabilità.
Proprio alla luce di tale esigenza di tutela dei terzi, la Corte di Cassazione ha distinto l'ipotesi in cui il socio accomandante abbia eseguito attività qualificabile come "esecutiva" in presenza di delega, rispetto a quella in cui detta delega fosse carente.
In particolare, la S.C. - con Sentenza del 04.11/19.12.2008 n° 29794, annullando la pronuncia della Corte d'Appello di Reggio Calabria - ha evidenziato che "se il socio accomandante non può nè compiere atti di amministrazione, nè trattare o concludere affari, il carattere di specialità della procura conferita dall'accomandatario deve perciò essere necessariamente rapportato alla predeterminazione degli atti che, in virtù di essa, gli sono conferiti; se tali atti sono illimitati e privi di collegamento al singolo determinato "affare", egli acquisisce un potere che non gli spetta; e se effettivamente lo esplica, merita lo stesso trattamento riservato all'accomandatario", essendo irrilevante indagare - secondo l'assunto della Cassazione - sulla natura dell'attività esecutiva compiuta dall'accomandante, in quanto la genericità della procura conferitagli aveva già prodotto effetti verso i terzi, comportando, quindi, la perdita, in capo allo stesso, del beneficio della responsabilità limitata.
Nella diversa e più recente pronuncia qui di seguito riportata, peraltro, la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale lagunare e ha escluso che le "prestazioni di garanzia" effettuate dal socio accomandante potessero qualificarsi come "manifestazioni di ingerenza" nella gestione della società da lui garantita, atteso che i suddetti atti potevano ritenersi attinenti soltanto al "momento esecutivo" delle obbligazioni.
Quindi, se si volesse sintetizzare al massimo la quaestio, potrebbe dirsi "no" a procure generali all'accomandante, "sì" a procure speciali e limitate in particolare conferite al socio accomandante, ancorchè lavoratore subordinato (v'era peraltro una posizione più risalente e minoritaria, che ammetteva ampiezza di poteri gestori in caso di subordinazione dell'accomandante: ora tale impostazione deve ritenersi eccessiva e superata; cfr., sul punto, Cass. Civ. Sez. I, 15.12.1982 n° 6906: "Il divieto agli accomandanti sia di trattare e concludere affari in nome della società, sia di compiere atti di amministrazione, posto dall'art. 2320 c.c., ha per oggetto atti esterni ed interni e mentre è incondizionato per gli atti interni di amministrazione, è invece derogabile per gli atti esterni, in forza di procura speciale per i singoli affari, con la conseguenza che al di fuori di tale particolare ipotesi, gli atti di amministrazione e le operazioni gestorie sono consentite all'accomandante solo se si tratta di opera di collaborazione nel quadro di un rapporto di subordinazione dell'accomandante all'accomandatario") nonchè a mere attività esecutive in difetto di procura, a patto, per queste ultime, che siano afferenti al solo momento esecutivo dell'obbligazione (ad es. fidejussioni rilasciate a posteriori rispetto all'assunzione del debito principale, deciso unilateralmente dal solo accomandatario).

 

Cass. Civ., sez. I, 28.04/03.06.2010, n° 13468 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 
Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo, Presidente 
Dott. SALVAGO Salvatore, Consigliere 
Dott. CECCHERINI Aldo, Consigliere 
Dott. NAPPI Aniello, Consigliere
Dott. DOGLIOTTI Massimo, Consigliere
ha pronunciato la seguente:                                          
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
V. S.p.a., domiciliata in Roma, via G. Belli 39, presso gli avv. Lembo A.  e S. Paternostro,  che  la  rappresentano  e difendono unitamente all'avv. R. Portanova, come da mandato in calce al ricorso (ricorrente),
contro
Fallimento S.F., domiciliato in Roma, via U. De Carolis 74, presso l'avv.  L. Piattoni, rappresentato e difeso dall'avv. Trentini C., come da mandato a margine del ricorso; (ricorrente incidentale), 
contro
S.F., domiciliata in Roma, corso Trieste 155, presso l'avv.  M.  Deluca, che la rappresenta e difende, come da mandato a
margine del controricorso e ricorso incidentale (controricorrente e ricorrente incidentale),
contro
M.d.R. S.p.a. (intimato),
contro
A.A. (intimato),
avverso  la  sentenza n. 855/2005 della Corte d'appello  di  Venezia, depositata il 23 maggio 2005;
Sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Aniello Nappi;
udito  il difensore della V. S.p.a., che ha chiesto l'accoglimento  del ricorso.
Udite le conclusioni del P.M., CENICCOLA Raffaele, che ha chiesto il rigetto del ricorso. 
Fatto
Il 9 marzo 1998 il Tribunale di Verona dichiarò il fallimento di S.F. quale socia accomandante della fallita s.a.s. C., di cui il marito D.B.G. era socio accomandatario, nel presupposto che, in violazione dell'art. 2320 c.c., la signora si fosse ingerita nell'amministrazione della società, cui aveva sistematicamente prestato garanzie e sostegno finanziario, anche con la sua impresa individuale, effettuando peraltro indebiti prelievi di denaro dalle casse sociali tramite un fondo prelevamento soci.
L'opposizione al fallimento proposta da S.F., anche in contraddittorio con la creditrice V. S.p.a., fu respinta in primo grado, ma fu accolta dalla Corte d'appello di Venezia con la sentenza ora impugnata per cassazione, che ne revocò il fallimento.
Ritennero i giudici d'appello:
a) i fatti posti a fondamento della sentenza di fallimento erano certamente indicativi di una affectio societatis, peraltro non controversa, ma non valevano a giustificare la dichiarazione di decadenza di S.F. dal beneficio della limitazione della responsabilità propria del socio accomandante, perchè non erano manifestazione di un'attività di gestione degli affari sociali; b) era palesemente inammissibile la pretesa del curatore di valutare gli stessi fatti come indicativi di una società irregolare tra S.F. e il marito D.B.G. o di ribadire comunque il fallimento di S.F. quale imprenditrice individuale, perchè la L. Fall., art. 15, nel testo risultante dalla sentenza costituzionale n. 141 del 1970, preclude la possibilità di dichiarare il fallimento per presupposti diversi da quelli contestati preventivamente al debitore. Contro questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la creditrice V. S.p.a., con due motivi d'impugnazione, illustrati anche da memoria, e il Fallimento di S.F., con due motivi d'impugnazione.
Resiste con controricorso S.F., che ha proposto altresì ricorso incidentale condizionato. Non hanno spiegato difese invece gli altri creditori intimati.
Diritto
1. I ricorsi proposti avverso la stessa sentenza vanno riuniti; ma esigono una trattazione separata i motivi che li sostengono.
2. Con il primo motivo del suo ricorso la V. S.p.a. deduce violazione della L. Fall., art. 18. Sostiene che, avendo promosso il fallimento della C. s.a.s. e non quello di S.F., richiesto dal curatore, l'opposizione proposta da S.F. le fu notificata erroneamente, peraltro per ordine del giudice istruttore. Eccepisce perciò il proprio difetto di legittimazione passiva nel giudizio.
Con il secondo motivo la V. S.p.a. deduce violazione dell'art. 112 c.p.c., ed errata applicazione dell'art. 92 c.p.c..
Sostiene che, dopo il suo intervento nel giudizio di opposizione promosso da S.F., l'opponente non formulò conclusioni nei suoi confronti, neppure ai fini delle spese processuali. Sicchè era illegittima la sua condanna alle spese del giudizio.
Il ricorso è manifestamente infondato. Secondo la giurisprudenza di questa corte, infatti, "i creditori istanti per il fallimento di società di persone o imprenditore individuale, assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento proposto dal socio illimitatamente responsabile, cui sia stato esteso il fallimento della società di persone o il fallimento del socio, ritenuto inizialmente un imprenditore individuale" (Cass., sez. 1^, 20 maggio 2005, n. 10693, m. 582126, Cass., sez. I, 10 luglio 2001, n. 9359, m, 548060).
D'altro canto, come risulta dallo stesso ricorso, la V. S.p.a., intervenuta in giudizio per ordine del giudice, concluse per il rigetto della opposizione proposta da S.F. e per la condanna dell'opponente a rimborsarle le spese. Non rileva pertanto che S.F. non formulò conclusioni specifiche contro la V. S.p.a., ma rileva che la società creditrice chiese il rigetto dell'opposizione. E la soccombenza della V. S.p.a. rispetto a questa sua richiesta ne giustifica la condanna alle spese.
3.1 - Con il primo motivo del suo ricorso il Fallimento S.F. deduce violazione della L. Fall., art. 147, e art. 2320 c.c..
Sostiene che erroneamente i giudici del merito abbiano escluso la rilevanza delle sistematiche prestazioni di garanzia da parte di S.F. quali manifestazioni della sua ingerenza nella gestione della società garantita. E aggiunge che anche i prelievi dalle casse sociali operati dalla S.F. dovessero essere considerati come atti di disposizione del patrimonio sociale.
Il motivo è infondato.
Non v'è dubbio, infatti, che "l'esistenza del rapporto sociale, anche al fine della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile a norma della L. Fall., art. 147, può risultare da indici rivelatori quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore dell'imprenditore, allorquando essi - ancorchè riguardanti il solo momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società - siano, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività di impresa, qualificabile come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali" (Cass., sez. 1^, 16 marzo 2007, n. 6299, m. 597150).
Tuttavia, come hanno ben evidenziato i giudici d'appello, non è qui in discussione la qualità di socia di S.F., è in discussione il suo presunto ruolo di amministrazione e gestione della società. E secondo la giurisprudenza di questa corte, la stessa "situazione di socio occulto di una società in accomandita semplice - la quale è caratterizzata dall'esistenza di due categorie di soci, che si diversificano a seconda del livello di responsabilità (illimitata per gli accomandatari e limitata alla quota conferita per gli accomandanti, ai sensi dell'art. 2312 c.c.) - non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario, essendo necessario, a tal fine, accertare di volta in volta la posizione in concreto assunta da detto socio, il quale, di conseguenza, assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell'art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione (intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi) o di trattare o concludere affari in nome della società" (Cass., sez. 1^, 25 luglio 1996, n. 6725, m. 498754).
E' indiscusso in realtà che, per aversi ingerenza dell'accomandante nell'amministrazione della società in accomandita semplice, - vietata dall'art. 2320 c.c. - non è sufficiente il compimento, da parte dell'accomandante, di atti riguardanti il momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società, ma è necessario che l'accomandante svolga una attività gestoria che si concreti nella direzione degli affari sociali, implicante una scelta che è propria del titolare della impresa" (Cass., sez. 1^, 14 gennaio 1987, n. 172, m. 449940, Cass., sez. 3^, 28 luglio 1986, n. 4824, m. 447529, Cass., sez. 1^, 15 dicembre 1982, n. 6906, m. 424557, Cass., sez. 1^, 26 giugno 1979, n. 3563, m. 399978). E mentre la prestazione di garanzia attiene evidentemente al momento esecutivo delle obbligazioni, il prelievo di fondi dalle casse sociali per le esigenze personali del socio, quand'anche indebito o addirittura illecito, non costituisce certamente un atto di gestione della società.
3.2 - Con il secondo motivo del suo ricorso il Fallimento S.F. deduce violazione dell'art. 112 c.p.c. ed eccepisce la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sulla richiesta della curatela di ribadire il fallimento di S.F. quale socia irregolare del marito D.B.G. o come imprenditrice individuale.
Il motivo è manifestamente infondato. Infatti i giudici d'appello non hanno omesso di pronunciarsi sulle richieste subordinate del curatore, ma le hanno dichiarate inammissibili.
E questa decisione è del tutto corretta, perchè, come ben rilevato dalla corte d'appello, è indiscusso nella giurisprudenza di questa corte che, quando la dichiarazione di fallimento abbia avuto come presupposto la qualità di socio di una determinata società di persone, "viola il principio del rispetto del contraddittorio, stabilito nella L. Fall., art. 15, la sentenza emessa all'esito del giudizio di opposizione con la quale venga riconosciuta al fallito la qualità di imprenditore individuale" (Cass., sez. 1^, 30 agosto 1995, n. 9156, m. 493804) o di socio di altra società (Cass., sez. 1^, 30 agosto 1995, n. 9156, m. 493804). Il ricorrente invoca in senso contrario il principio inquisitorio, cui era all'epoca ispirato anche in appello il procedimento fallimentare, e rileva di avere formulato già nel primo grado del giudizio di opposizione le sue richieste subordinate, riproposte poi nel giudizio d'appello.
Sennonchè non rileva qui quanto il curatore abbia dedotto nel giudizio di opposizione, in primo o in secondo grado. Rileva invece su quali presupposti del fallimento sia stata chiamata a difendersi S.F. nella fase prefallimentare; e su quali presupposti sia stata poi dichiarata fallita.
E secondo i giudici del merito, non contestati sul punto, "nel caso di specie il contraddittorio risulta instaurato esclusivamente sul presupposto specifico dell'esistenza delle condizioni di cui all'art. 2320 c.c., per la decadenza dell'odierna appellante dal beneficio della limitazione della responsabilità e della conseguente estensibilità, alla stessa, del fallimento della società ai sensi della L. Fall., art. 147, ma non anche su quelle, evidentemente affatto diverse, della coesistenza di un'autonoma società irregolare ovvero della ricorrenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi per la dichiarazione del fallimento della S.F. come imprenditore individuale".
4. La decisione di rigetto di entrambi i ricorsi proposti dalla V. S.p.a. e dal fallimento risulta assorbente rispetto al ricorso incidentale condizionato proposto da S.F.. A norma dell'art. 97 c.p.c., delle spese rispondono solidalmente le parti soccombenti.

P.Q.M

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta i ricorsi della V. S.p.a. e del Fallimento di S.F.; e dichiara assorbito il ricorso incidentale di S.F..
Condanna la V. S.p.a. e il Fallimento di S.F. in solido al rimborso delle spese in favore di S.F., liquidandole in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2010.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2010

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