Investigazioni

INVESTIGAZIONE PRIVATA - Dell'incompatibilità tra titolarità della licenza investigativa e professione forense.

Giano bifronte

È entrata in vigore la nuova legge forense e ci si chiede se, alla stregua delle nuove norme, sussista o no incompatibilità tra l’esercizio della professione forense e l’attività dell’investigatore privato titolare di licenza prefettizia ex art. 134 T.U.L.P.S. e/o 222 disp. att. c.p.p.
Al quesito si ritiene di dover rispondere dopo aver passato in rassegna i seguenti profili: la L. n° 247/2012, il R.D.L. n° 1578/1933, la titolarità della licenza, la carica di amministratore e la L. n° 4/2013, altresì esaminando l’All. H al D.M. n° 269/2010, così da poter trarre le relative conclusioni.

1. La L. n° 247/2012

La “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense” pubblicata in G.U. del 18.01.2013 (S.Gen. n° 15), è in vigore dal 02.02.2013: il Parlamento infatti, abrogato il vetusto R.D.L. n° 1578/1933, ha rimodellato il regime delle “incompatibilità”,  dedicandovi l’art. 18 della legge 31.12.2012 n° 247 il quale ora – tranchant – così espressamente dispone:

«1. La professione di Avvocato è incompatibile:
a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente, escluse quelle di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale, e con l’esercizio dell’attività di notaio. È consentita l’iscrizione nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nell’elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili o nell’albo dei consulenti del lavoro;
b) con l’esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale svolta in nome proprio o in nome o per conto altrui. È fatta salva la possibilità di assumere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali o in altre procedure relative a crisi di impresa;
c) con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società di persone, aventi quale finalità l’esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite, nonché con la qualità di amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, nonché con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione. L’incompatibilità non sussiste se l’oggetto della attività della società è limitato esclusivamente all’amministrazione di beni, personali o familiari, nonché per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico;
d) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato».

La recente Legge Professionale Forense dunque – che “sottrae l’Ordinamento Forense al processo di delegificazione in atto, rilegificando la materia” (cfr. Dossier n° 4/2013 dell’Ufficio Studi del C.N.F.) – ha postulato l’assoluta impossibilità giuridica di svolgere la funzione difensiva e, nel contempo, quella investigativa, atteso che la persona titolare della “licenza” prefettizia innegabilmente svolge, in modo continuativo o professionale, un’attività di lavoro autonomo.
Le disposizioni attinenti alle cennate cause d’incompatibilità, peraltro, “operano sin da subito”, come precisato dal C.N.F. (F.A.Q. sulla L. 31.12.2012 n° 247, a cura dell’Ufficio Studi del C.N.F.), fatta eccezione per le incompatibilità di cui all’art. 19 (che, ex art. 65, co. 3, “non si applica agli Avvocati già iscritti agli Albi alla data di entrata in vigore della presente legge”), relative alle sole ipotesi delle docenze e dell’attività legale per conto degli enti pubblici (cfr. Dossier n° 1/2013 dell’Ufficio Studi del C.N.F.).
Come noto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17 L. n° 247/2012 (Iscrizione e cancellazione):

«1. Costituiscono requisiti per l’iscrizione all’albo: (omissis)
e) non trovarsi in una delle condizioni di incompatibilità di cui all’articolo 18; (omissis

talché poi, trattandosi di “impedimento” per la stessa iscrizione all’Albo professionale, come prevede il successivo comma

«9. La cancellazione dagli Albi, elenchi e registri é pronunciata dal Consiglio dell’Ordine a richiesta dell’iscritto, quando questi rinunci all’iscrizione, ovvero d’ufficio o su richiesta del procuratore generale: a) quando viene meno uno dei requisiti indicati nel presente articolo; (omissis

La novella di cui alla L. n° 247/2012 ha quindi inciso profondamente sulla regolamentazione in subiecta materia.

2. Il R.D.L. n° 1578/1933

Il previgente Regio Decreto Legge 27.11.1933 n° 1578, convertito in L. 22.01.1934 n° 36 e succ. mod. (“Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore legale”), invero sanciva all’art. 3, con statuizione assai più laconica, che

«L'esercizio delle professioni di avvocato è incompatibile con l'esercizio della professione di notaio, con l'esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui, con la qualità di ministro di qualunque culto avente giurisdizione o cura di anime, di giornalista professionista, di direttore di banca, di mediatore, di agente di cambio, di sensale, di ricevitore del lotto, di appaltatore di un pubblico servizio o di una pubblica fornitura, di esattore di pubblici tributi o di incaricato di gestioni esattoriali.
È anche incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, della Banca d'Italia, del gran magistero degli ordini  cavallereschi, del Senato, della Camera dei deputati ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.
È infine incompatibile con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario (omissis)».

Secondo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, peraltro, l’incompatibilità de qua rileva in relazione alla natura di determinate attività, che potrebbero porsi in contrasto con le esigenze di autonomia, di prestigio e di efficienza della classe forense (Sez. Un., Sent. n° 2848/76, principio elaborato in riferimento all’art. 3 R.D.L. n° 1578/1933).
Come icasticamente sancito dal C.N.F., del resto, la violazione della previsione sull’incompatibilità non solo genera una grave responsabilità deontologica per la sua contrarietà all’art. 3 delle norme istitutive dell’Ordinamento Professionale Forense, ma si pone in contrasto con i generali principi di autonomia e indipendenza ed i doveri di probità, dignità e decoro che devono ispirare la condotta dell’Avvocato, nonché con lo specifico ulteriore dovere di evitare incompatibilità ostative alla permanenza nell’Albo professionale e con il divieto di esercitare attività commerciale, espressamente previsto dall’art. 16 del Codice Deontologico Forense (cfr. Delibera n° 10/2012 C.N.F. dianzi citata).
Nel ridisegnare i profili dell’incompatibilità con la professione forense, il legislatore del 2012 si è conformato all’orientamento consolidato della Cassazione, che, a sua volta, aveva aderito alla tesi “restrittiva” del C.N.F.
In particolare, è stata dissipata ogni possibile aporia ermeneutica in ordine alla locuzione «ogni altro impiego retribuito», che era prevista dal testo previgente (l’art. 3, co. 3,  del D.D.L. n° 1578/1933): la Suprema Corte, con la sentenza resa a Sezioni Unite n° 14810/2009, aveva infatti sposato la tesi del Consiglio Nazionale Forense secondo cui lo lo svolgimento di una qualsivoglia altra attività autonoma determina l’ incompatibilità se effettuata in via continuativa o professionalmente, così negando cittadinanza all’opposta tesi per la quale la nozione di “impiego” andava limitata soltanto all’attività subordinata (Cass. Civile, Sez. Unite, 24.06.2009 n° 14810, Pres. Carbone, Est. Nappi, P.M. Martone).
Nella fattispecie, la S.C. aveva quindi condiviso l’impostazione severa del C.N.F., rigettando il gravame interposto da un legale a cui l’Ordine forense aveva contestato l’incompatibilità, ravvisata nella circostanza che la figura di direttore sanitario, sia pur nell’ambito d’un rapporto di lavoro autonomo comporta l’instaurarsi, di regola, di un rapporto stabile e remunerato con l’azienda sanitaria di riferimento.
In seno al C.N.F., invero, era prevalso il concetto di “impiego” quale espressione di qualsiasi attività retribuita, ancorché di carattere autonomo (cfr., Pareri C.N.F. 26.09.2003 n° 154, 29.01.2009 n° 1 e 15.06.2009 n° 26). Ciò che rileva – era stato stigmatizzato – era il fattore della “relativa stabilità” dell’incarico, non la natura, subordinata o autonoma, del rapporto di lavoro (cfr. espressamente la  Sent. Cass. Civ., Sez. Un., n° 14810/2009).
Ora nel 2013, come detto, il problema risulta ampiamente superato dall’espressa previsione dell’incompatibilità “anche” del lavoro c.d. autonomo, pur con dei temperamenti derivanti dalla natura del rapporto (così, ad esempio, il C.N.F. ha ritenuto che l’attività di amministratore di condominio di edifici, anche dopo la riforma di cui alla L. n° 220 del 11.12.2012, essendo riconducibile a ufficio di diritto privato assimilabile al mero mandato con rappresentanza, non comporti eccezionalmente incompatibilità: così Parere C.N.F. del 20.02.2013, Rel. Cons. Avv. Perfetti).

3. La titolarità della licenza

Già sotto la vigenza dell’art. 3 del Regio Decreto Legge n° 1578 del 1933, il Consiglio Nazionale Forense, venne chiamato ad occuparsi ex professo della quaestio della titolarità della licenza investigativa da parte di un legale.
Se l’Investigatore privato resti un mero praticante Avvocato senza patrocinio, nulla quaestio circa il permanere della licenza in capo al medesimo praticante: sul punto fu reso il Parere da parte del C.N.F. (il n° 44/1996), secondo cui l’incompatibilità fra l’attività del praticante procuratore e quella dell’investigatore privato:

«potrà ravvisarsi solo laddove il professionista in parola sia munito di abilitazione professionale. (omissis) nessuna incompatibilità potrà ravvisarsi qualora il praticante non abbia l’abilitazione all’esercizio professionale».

Laddove però il praticante Avvocato intenda fruire del patrocinio, sussiste incompatibilità:

«Deve ritenersi sussistente il profilo di incompatibilità introdotto dall'art. 3, co. 1, del R.D.L. n° 1578/1933, e dunque legittima la decisione di rigetto dell'istanza di ammissione al patrocinio legale ex art. 8 L.P., nel caso in cui il praticante avvocato richiedente rivesta ruoli operativi e decisionali nell'ambito di una società commerciale che svolga attività di vigilanza ed investigazione privata» (Delibera 09.12.2010/28.03.2011 n° 37, Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Merli, P.M. Iannelli (conf.)).

In tale ultima fattispecie, portata alla cognizione del C.N.F., era invero accaduto che, dopo aver svolto il rituale periodo di pratica forense presso uno Studio Legale, un praticante aveva chiesto al Consiglio dell’Ordine competente di poter acquisire anche la qualifica di “patrocinatore” (ai sensi dell’art. 8 dell’allora vigente Legge Professionale): nell’occorso il C.N.F., investito dell’impugnazione interposta dal legale avverso la Delibera dell’Ordine circondariale con la quale la sua istanza era stata reietta, rigettò il ricorso e stabilì che al “praticante” fosse preclusa la “abilitazione al patrocinio” e la consequenziale iscrizione nel Registro Speciale annesso all’Albo. Invero, secondo la pronuncia del massimo consesso forense, era sicura, nel caso de quo, l’incompatibilità anche perché la società d’Investigazione “svolge sicuramente attività commerciale, offrendo servizi di vigilanza, guardiania, piantonamento, televigilanza, consulenza, etc.”.

4. La carica di amministratore

È noto altresì che, secondo la costante giurisprudenza di Via del Governo Vecchio, la posizione di amministratore o di presidente del c.d.a. con titolarità e/o esercizio di poteri gestori assume rilevanza ai fini dell’incompatibilità con l’esercizio della professione legale, segnatamente:

- «È incompatibile con l'esercizio della professione forense e deve essere cancellato l'Avvocato presidente di una s.p.a., se pur municipalizzata, che vanti poteri effettivi di gestione ordinaria e straordinaria. La carica di presidente del consiglio di amministrazione o di amministratore di una società commerciale è, infatti, compatibile con l'esercizio della professione forense e l'iscrizione all'albo, solo nella ipotesi in cui tale funzione comporti compiti meramente amministrativi e rappresentativi» (Delibera C.N.F. 22.09.2011/20.02.2012 n° 15, Pres. Alpa, Rel. Piacci, P.M. Fedeli (conf.);
- «Il professionista che ricopra la carica di presidente del consiglio di amministrazione di una società commerciale con tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione versa nell'ipotesi di incompatibilità, prevista dall'art. 3 del R.D.L. 27 novembre 1933 n° 1578 che dispone l'incompatibilità dell'esercizio della professione di Avvocato con l'esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui. Tale previsione deve intuitivamente riferirsi anche all'amministratore di società di persone o di capitali che eserciti una attività commerciale, a meno che non ricopra una carica meramente rappresentativa e onoraria o non abbia delegato tutte le funzioni gestorie ad altri soggetti (Amministratore delegato, Direttore generale, altri componenti del Consiglio di Amministrazione) in virtù di una facoltà statutariamente prevista» (Delibera C.N.F. 28.04.2011/30.01.2012 n° 10, Pres. Alpa, Rel. Ferina, P.M. Galati (conf.));
- «Va ritenuta sussistente l'incompatibilità tra l'esercizio della professione di Avvocato e la carica di presidente del c.d.a. e di amministratore delegato di società per azioni, con conseguente legittimità del provvedimento di cancellazione del medesimo professionista dall'Albo degli Avvocati, allorché quest'ultimo eserciti - come nella specie - un effettivo e concreto potere di gestione che trova conferma nelle previsioni statutarie, a nulla rilevando in senso contrario la natura pubblicistica o privatistica della società, né tantomeno la circostanza che la stessa sia controllata da enti pubblici mediante la formula del c.d. in house providing» (Delibera C.N.F. 23.10.2008/04.05.2009 n° 8, Pres. f.f. Vermiglio, Rel. De Giorgi - P.M. Iannelli (conf.));
- «L'incompatibilità prevista dall'art. 3 del R.D.L. n. 1578/1933, discende obiettivamente dalla assunzione di una carica sociale che comporti poteri di gestione, risultando non pertinenti indagini circa la portata economica o la natura giuridica (ordinaria o straordinaria) dell'amministrazione ovvero la maggiore o minore autonomia nelle decisioni ed azioni rispetto ad altre concorrenti od anche sovraordinate fonti volitive, giacché deve ritenersi sufficiente, perché tale situazione di conflitto si configuri, la potenzialità della gestione connessa alla carica assunta, ovvero la titolarità anche solo formale dei relativi poteri, senza che a tal fine rilevi la concretezza di specifici atti di gestione» (nella specie, l'incolpato, che aveva assunto la carica di A.U. di talune s.r.l., aveva dapprima rimosso con ingiustificato ritardo la situazione di incompatibilità nonostante le comunicazioni ricevute dall'Ordine degli Avvocati, e poi reiterato il comportamento incompatibile divenendo amministratore di altre compagini; Delibera C.N.F. 20.11/31.12.2008 n° 261, Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Bianchi, P.M. Iannelli (conf.));
- «Il professionista che ricopra la carica di presidente del consiglio di amministrazione, di amministratore unico o di amministratore delegato di una società commerciale si trova in una situazione di incompatibilità (esercizio del commercio in nome altrui) prevista dall'art. 3 R.D.L. n° 1578/33. Invece, non ricorre una ipotesi di incompatibilità quando il professionista pur ricoprendo la carica di presidente del c.d.a., sia stato privato, per statuto sociale o per successiva deliberazione, dei poteri di gestione dell'attività commerciale, attraverso la nomina di un amministratore delegato» (Delibera C.N.F. 20.09.2000 n° 90, Pres. f.f. Danovi, Rel. Ruggerini, P.M. Ciampoli (conf.)).
- «È incompatibile con l'esercizio della professione forense l'attività svolta nella qualità di amministratore unico di società commerciali, rientranti nella previsione dell'art. 2195 c.c., e costituite nella forma delle s.r.l. o s.p.a., con carattere imprenditoriale e commerciale» (Delibera C.N.F. 15. 05. 1996 n° 68, Pres. f.f. Panuccio, Rel. Vinatzer, P.M. Iannelli (conf.)).

Anche la Cassazione ha ritenuto, stante la pregressa giurisprudenza di cui alla Sentenza n° 1143/1977 (in particolar modo per ciò che attiene al fatto che

«la situazione di incompatibilità all’esercizio della professione forense discende obiettivamente dalla assunzione della carica sociale, che comporti poteri di gestione e rappresentanza»),

che fosse manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale (sollevata dal legale ricorrente) e ha avallato detto orientamento del C.N.F., statuendo che:

«Certo che l’esercizio della professione di avvocato è incompatibile «con l’esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui» e, in particolare come ricordato sopra che «la situazione di incompatibilità discende obiettivamente dall’assunzione di una carica sociale che comporti poteri di gestione e di rappresentanza» di una società commerciale, pacifico che nella specie l’odierno ricorrente ha assunto il (omissis) la carica di presidente del consiglio di amministrazione della (omissis) s.r.l. e il (omissis) anche quella di amministratore delegato della stessa società esercitandone i relativi poteri di gestione, sia interna che esterna, sino alle dimissioni, avvenute il (omissis), è evidente che si è a fronte a comportamenti (id est la assunzione dei detti incarichi e l’esercizio dei poteri di gestione) posti in essere consapevolmente, senza che possa in questa sede invocarsi un difetto di «volontarietà». È evidente, infatti, che bene poteva parte ricorrente non accettare le cariche in questione e, di conseguenza, non incorrere nella condizione di incompatibilità prevista dalla legge» (Cass. Civ., Sez. Un., Sent. 30.11.2006/05.01.2007 n° 37, Pres. Prestipino, Rel. Finocchiaro, P.M. Palmieri (conf.)):

Invero, come rilevato dalla S.C. con detta sentenza n° 37/2007:

«è irrilevante al fine di escludere la situazione di incompatibilità ogni indagine volta a verificare se si trattava o meno di atti di normale e dovuta amministrazione o di amministrazione straordinaria. La situazione di incompatibilità, invece, non ricorre quando il professionista, pur ricoprendo la carica di presidente del consiglio di amministrazione, sia stato privato, per statuto sociale o per successiva deliberazione, dei poteri di gestione dell’attività commerciale, attraverso la nomina di un amministratore delegato»,

con la quale si è altresì puntualizzato, in ordine alla nozione di attività commerciale, che

«l’art. 2195, co. 2, del vigente c.c. espressamente prevede che “le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano”» (cfr. Rassegna Forense, Rivista trim. del C.N.F., Anno XL, n° 1, Mi, 2007, pag. 338 e ss.).

- Di conseguenza, sotto un primo profilo, bisogna concludere che il fatto in sé d’essere amministratore di una società commerciale o di esserne il presidente del consiglio di amministrazione (non solo con poteri di rappresentanza e firma legale ma addirittura) con attribuzione di delega alla firma disgiunta per l’ordinaria amministrazione comportano la situazione d’incompatibilità: come evidenziato anche dai primi commenti alla novella,

«Quanto alle società di capitali all’interno delle quali l’avvocato rivesta cariche sociali, l’incompatibilità viene ricollegata all’effettiva titolarità di poteri di gestione, esclusi quindi i casi di mera titolarità di poteri di rappresentanza o l’appartenenza ad organi collegiali all’interno dei quali la volontà del singolo non abbia autonoma rilevanza» (Cassa Forense, newsletter n° 8 del sett. 2012, Incompatibilità).

- Sotto un secondo profilo, inoltre, va osservato come sia notorio che il soggetto titolare dell’autorizzazione di polizia ex artt. 134 T.U.L.P.S. e/o 222 disp. att. C.P.P., rilasciatagli dal Prefetto per effettuare indagini per conto terzi, ove chieda ed ottenga la c.d. “licenza” (che è, e resta, pur sempre “personale”) quale legale rappresentante di una società commerciale, dev’essere l’amministratore di quell’Azienda.
Il rilascio della licenza viene richiesto al Prefetto, infatti, allo scopo di “gestire” un Istituto di investigazioni per la ricerca e la raccolta di informazioni per conto di privati. Inoltre, tra le prescrizioni che il Prefetto impone v’è sempre quella di “assumere la diretta conduzione dell’Istituto” d’investigazioni.
Se, quindi, un Investigatore privato sia titolare della licenza, deve egli stesso, in prima persona, “condurre e gestire” l’Istituto investigativo: pertanto, la circostanza di essere il titolare di una licenza investigativa implica “necessariamente”, al di là delle deleghe formali a terzi o delle attribuzioni statutarie in seno a un consiglio di amministrazione, l’esercizio di poteri di gestione.
- Per altro verso poi, sotto un terzo profilo, va posto l’accento sul fatto che – oramai – la questione va impostata su basi differenti, alla stregua della nuova normativa professionale.
In forza della L. n° 247/2012 versa infatti in situazione d’incompatibilità anche la persona che – sia pur priva dei poteri gestori, magari conferiti per statuto ad altri consiglieri d’amministrazione a ciò delegati – svolga l’attività commerciale, segnatamente nelle vesti di investigatore privato in forza dell’autorizzazione rilasciatagli dal Prefetto alla stregua del D.M. n° 269/10 e dell’art. 134 T.U.L.P.S. e/o dell’art. 222 disp. att. C.P.P.
A prescindere, infatti, dalla su riportata questione dell’esatto perimetro del ruolo di amministratore (che di per sé rimane comunque un “impedimento” attuale), la nuova L.P. impone agli Avvocati di non svolgere affatto, in contemporanea con l’iscrizione all’Albo, attività diverse di lavoro autonomo o comunque libero professionali, rispetto a quelle expressis verbis specificate.
E non si tratta soltanto di disposizione avente mera rilevanza deontologica, cioè incidente solo sui principi e canoni etici cui gli Avvocati debbano attenersi nell’esercizio delle loro ministero defensionale.
Un conto, infatti, è il Codice Deontologico Forense (vincolante solo per coloro che rivestano lo status di legale), altro è una legge dello Stato, avente di per sé efficacia erga omnes: dunque, chi dal febbraio 2013 versi in  situazione d’incompatibilità, trovandosi a rivestire ambedue le qualifiche (di legale e d’investigatore privato autorizzato), deve rimuovere senza ritardo la causa ostativa (segnatamente rinunciando alla licenza prefettizia) o chiedere la cancellazione dall’Albo.
Non sembrano ravvisabili altre opzioni.
Tertium non datur
.
Come rilevato dai primi osservatori (“Professione di Avvocato: incompatibilità ed eccezioni alla luce della recente riforma forense”, in Filoridiritto.com),

«Si tratta, a ben vedere, di situazioni che chi esercita la professione di Avvocato, se è persona cosciente e capace di rendersi conto dell’essenza della funzione sociale che svolge, è facilmente in grado di percepire come una “distorsione” della propria libertà professionale nello svolgimento della sua attività professionale, che è condizione essenziale per la effettiva tutela dei diritti dei cittadini».

5. La L. n° 4/2013

Peraltro L. n° 4 del 14.01.2013, sulle cc.dd. “professioni non regolamentate”, ha previsto (art. 2 – Associazioni professionali) che

«6. Ai professionisti di cui all'art. 1, comma 2 [cioè ai professionisti non organizzati in albi o collegi], anche se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non è consentito l'esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l'iscrizione al relativo albo professionale».

Potrebbe sembrare, prima facie, che questa norma, che è successiva alla Legge n° 247/2012 (L.P.F.), possa aver aperto uno spiraglio per consentire quanto la legge di qualche settimana prima espressamente ha vietato. Nondimeno, diventano rilevanti due aspetti, che valgono a privare di ogni fondamento tale suggestiva ipotesi:
a) la legge sulle professioni non regolamentate rinvia, quanto ai requisiti per l’esercizio eventuale d’una altra professione, alle disposizioni che regolamentano quest’ultima: nel caso in esame, la professione non regolamentata di investigatore privato può essere compatibile con altre, a patto che sussistano, in capo al professionista, anche tutti i presupposti richiesti dalla specifica diversa attività cui egli ambisce;
b) la L. n° 247/2012 è legge speciale, perché fissa i “paletti” entro i quali può ritenersi il legittimo esercizio della professione forense, mentre la L. n° 4/2013 è legge generale, non attinente alcuna professione in particolare ma che anzi crea un regime omogeneo per quegli ambiti prima sprovvisti di disciplina e, comunque, non riguarda la professione forense: si applica in ogni caso, con prevalenza sul criterio cronologico, il principio di specialità, espresso dal brocardo latino "lex posterior generalis non derogat priori speciali", talché  la norma posteriore generale non abroga affatto la norma anteriore speciale.
Pertanto, non è ammissibile, neanche dopo l’entrata in vigore della L. n° 4/2013, lo svolgimento contemporaneo della professione forense e d’investigatore privato autorizzato.

6. L’All. H al D.M. n° 269/2010

Da ultimo un’annotazione ulteriore, in ordine al domicilio professionale.
Potrebbe accadere che ufficio dell’investigatore privato e Studio legale coincidano.
Questo aspetto non è nemmeno tanto marginale, anche per ciò che attiene all'interpretazione complessiva delle norme dell'Ordinamento giuridico.
La legge italiana contempla un’articolata serie di guarentigie (la inviolabilità relativa della borsa del legale e dei locali del suo ufficio, la privatezza della sua corrispondenza, etc.), che sono poste a presidio della parte assistita, del segreto professionale forense e del libero esercizio del munus difensivo.
Viceversa, l’ufficio dell’investigatore privato può essere soggetto a quotidiani accessi da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, in special modo ai fini delle verifiche del “Registro delle operazioni”, in cui con criterio cronologico vengono annotati i vari incarichi investigativi.
Allorquando è stata riformata la figura dell’investigatore privato, il Ministero degli Interni – con il D.M. n° 269 del 01.12.2010 (in S.O. alla G.U. n° 37/L, S.Gen. n° 36, del 14.02.2011) – ha opportunamente modificato il Regolamento d’esecuzione del T.U.P.L.S. di cui al R.D. 06.05.1940 n° 635, come successivamente modificato e integrato dal D.P.R. 04.08.2008 n° 153, stabilendo, per ciò che attiene alla sede dell’attività del detective privato, con disciplina che è in vigore dal 15.03.2011 (salva le fase transitorie: di diciotto mesi per il c.d. adeguamento delle caratteristiche e dei requisiti organizzativi, professionali e di qualità dei servizi alla nuova disciplina; di trentasei mesi per i requisiti formativi minimi), in ordine alle “caratteristiche minime del progetto organizzativo di cui all’art. 257, co. 2, del Reg. d’Esecuzione del T.U.L.P.S., che:

«1. Il progetto organizzativo è predisposto dal soggetto che richiede la licenza ed é presentato al Prefetto unitamente all'istanza di autorizzazione, di cui costituisce parte integrante.
2. Il progetto organizzativo deve illustrare dettagliatamente:
il luogo ove l'imprenditore intende stabilire la sede principale (intesa come il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'attività e dove si espletano gli adempimenti di cui all'art 135 T.U.L.P.S. e 260 Regolamento d'Esecuzione, in particolare la tenuta del registro delle operazioni, anche su supporto elettronico non modificabile) e le eventuali sedi secondarie (intese come il luogo in cui si svolga attività operativa e si espletano gli adempimenti di cui all'art. 260, co.2), con descrizione delle sedi stesse; le sedi dell'attività non possono essere attivate presso il domicilio del titolare della licenza né in locali nei quali insistano studi legali; (omissis)» (cfr. l’Allegato “H” al D.M. n° 269/2010).

Conseguentemente, v’è a tutt’oggi l’espresso divieto, statuito dalla suddetta fonte normativa secondaria, alla (fisica e materiale) condivisione  dei locali dello Studio Legale con quelli dell’Istituto d’investigazione privata.
Le garanzie apprestate per l’uno – tra cui va menzionata la disciplina per la privacy dettata per dall’art. 6, co. 1 (“Accertamenti riguardanti documentazione detenuta dal difensore”), dell’All. “A.6” del D.L.vo n° 196/03, il Codice deontologico per lo svolgimento delle investigazioni difensive, ove si verta in materia di “accertamenti ispettivi” in materia di trattamento dei dati personali – non valgono (salvo quanto stabilito dalla legge per il segreto professionale) tout court per l’altro.

7. Conclusioni

Si ritiene quindi, per ciò che attiene alla quaestio iuris sopra posta, che a tutt’oggi – de jure condito – sia ravvisabile il divieto di contemporaneità di ruoli tra professionista legalmente esercente l’attività forense, iscritto al relativo Albo circondariale, e investigatore privato autorizzato, titolare di licenza prefettizia.
In base alla legge n° 247/2012 vigente, infatti, lo svolgimento dell’attività d’investigatore privato è comunque ostativo all’esercizio della professione forense, anche considerato che la licenza viene rilasciata dal Prefetto al fine di gestire e condurre un Istituto di Investigazioni private: la titolarità della licenza investigativa non può prescindere dall’esercizio di poteri di gestione e conduzione dell'impresa.
Così pure sussiste, in forza del D.M. n° 269/10, il “veto” al coevo utilizzo delle aree
immobiliari adibite a Studio Legale rispetto a quelle di cui fruisca l’Istituto d’investigazione privata.

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