Privacy

PRIVACY - Produzione giudiziale di documenti riservati, tra diritto di difesa del lavoratore e privacy aziendale.

Cass. Civ., Sez. Lav., 23.01/04.05.02, n° 6420

Della produzione in giudizio di documentazione aziendale riservata, da parte del prestatore di lavoro, a sostegno di fatti e domande avanzate verso il datore di lavoro, se ne è spesso occupata la giurisprudenza, pervenendo ad alterne soluzioni, che non consentivano di tracciare in modo chiaro la linea della legittimità del trattamento del carteggio dell'impresa da parte del lavoratore.
Dal 2002, però, si è consolidato un netto orientamento di Cassazione, avallato anche dal Supremo Collegio amministrativo, che pone due parametri per l'utilizzo lecito in causa dei documenti aziendali
, ancorchè ritenuti confidenziali a parte datoris (in primo luogo, ma non solo, corrispondenza scambiata per motivi lavorativi).

Secondo un risalente indirizzo, tale comportamento del dipendente costituirebbe violazione dell'obbligo di riservatezza, comportando l'inevitabile lesione del rapporto fiduciario e, quindi, potrebbe assurgere a giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n° 2560/1993), in ogni caso restando gravato il datore di lavoro dell'onere di dimostrare il carattere asseritamente riservato della documentazione allegata dal dipendente a sostegno delle proprie ragioni dedotte in giudizio (così Cass. C. n° 6473/1993).
Altra parte della giurisprudenza ha invece distinto la "produzione in giudizio di fotocopie" di documenti aziendali riservati, dalla diversa ipotesi della "sottrazione" di tali documenti: solo quest'ultima evenienza  (e non anche la prima) potrebbe giustificare un licenziamento disciplinare (Cass. n°1144/00).
Più recentemente si è fatto strada ed affermato un diverso orientamento, secondo il quale le esigenze di riservatezza dell'azienda devono cedere rispetto al diritto di difesa del dipendente: è legittima la produzione in giudizio di documenti aziendali a fini defensionali, ferma comunque la distinzione tra deposito giudiziale di copie fotostatiche e (la grave fattispecie di) impossessamento di documenti originali (Cass. Civ., Sez. Lavoro, 23.01/04.05.02, n° 6420; Cass. Civ., Sez. Lavoro, 15.10/07.12.04, n° 22923; nello stesso senso Cass. Civ., Sez. Lavoro, 07.07.04, n° 12528 Cass. Civ., Sez. Lavoro, 08.02.11, n° 3038).
Secondo la Suprema Corte, infatti, l'art. 2105 C.C. - che sancisce l'obbligo di fedeltà del lavoratore - rientra nel novero delle c.d. "norme elastiche", ovverosia di norme strutturate come clausole generali, il cui contenuto richiede un’opera di successiva specificazione, da parte del giudice che sia chiamato a darvi applicazione: in particolare, l’obbligo di fedeltà non può essere riferito alla sola posizione rivestita dalla parte datoriale, ma va strutturato in maniera tale da permettere una valutazione concreta anche dell'altrettanto importante posizione del lavoratore, dei suoi comportamenti, delle situazioni che, in concreto, ne hanno caratterizzato l’agire. Il Giudice, pertanto, è chiamato ad operare una comparazione tra "l'obbligo di fedeltà" a carico del lavoratore e "il diritto di difesa" che deve essere riconosciuto ad ogni cittadino e, quindi, anche al lavoratore. A tal fine dovrà innanzitutto accertare:
a) se il lavoratore avesse o no la materiale disponibilità (per ragioni del proprio ufficio) della documentazione riservata;
b) se il lavoratore abbia prodotto in causa la mera copia della documentazione o se, al contrario, l'abbia materialmente sottratta all'azienda.
Se entrambe tali valutazioni avranno dato esito positivo, dovrà riconoscersi la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza di dati in possesso di enti privati o pubblici.
E ciò anche in considerazione del fatto che, nell'ambito strettamente processuale, è impossibile che la produzione di uno o più documenti abbia a comportare, di per ciò stesso, una loro divulgazione (nel senso stretto del termine).
Inoltre,
l'art. 24, co. 1, lett. f), del T.U. Privacy (in cui è stato trasfuso l'art. 12 della previgente L. n° 675/96) non richiede affatto il consenso dell'interessato nell'ipotesi in cui il trattamento sia necessario "per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattali esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento".
Le motivazioni degli ermellini sono state fatte proprie, del resto, anche dalle Giustizia Amministrativa, che ha ritenuto il diritto di difesa del lavoratore pubblico prevalente persino sulle esigenze di segretezza della P.A. (Cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 11.07/31.12.03, n° 9276/03).

 

Cass. Civ., Sez. Lav., 23.01/04.05.02, n° 6420
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dai Magistrati:
Dott. Guglielmo SCIARELLI, Presidente
Dott. Luciano VIGOLO, Consigliere
Dott. Paolo STILE, Consigliere
Dott. Grazia CATALDI, Consigliere
Prof. Bruno BALLETTI, Cons. relatore
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul Ricorso proposto da:
W.C., rappresentato e difeso dagli avv.ti A.C. e P.P., presso il cui Studio è elettivamente domiciliato in Roma alla via S. n° 46, giusta procura in calce al Ricorso, Ricorrente;

contro

C.R.F. S.p.a. in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti G.M. e R.S., presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma al Corso V. n° 326, giusta procura a margine del Controricorso, Controricorrente;
nonché
A.P. (non costituito), Intimato;
avverso la Sentenza del Tribunale di Ancona - Sezione Lavoro n° 944/00 del 27.09.00 (resa nel giudizio di appello avente il R.G. n° 283/99).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23.01.02 dal Consigliere Bruno Balletti;
U
diti gli avv.ti A.C. e C.S. (per delega dell'avv. R.S.);
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Elisabetta Maria Cesqui, che ha concluso per "l'inammissibilità del primo motivo di Ricorso, l'accoglimento del secondo motivo e il rigetto del terzo e del quarto motivo".

Svolgimento del processo

Con Ricorso al Pretore-Giudice del Lavoro di Ancona W.C. conveniva in giudizio la C.R.F. S.p.A. esponendo:
- che era stato assunto in data 1° gennaio 94 alle dipendenze della banca convenuta in qualità di direttore della filiale di Ancona, "ritenendo che la sua esperienza e capacità professionale sarebbero state adeguatamente valorizzate";
- che, invece, aveva "subito una gravissima quanto ingiustificata dequalificazione da parte della Direzione della C.R.F. S.p.A., consistita in atteggiamenti lesivi della sua figura professionale con conseguente grave perdita di autostima ed insorgenza anche di malesseri psicofisici";
- che aveva richiesto tutela giurisdizionale avverso tale forma di dequalificazione professionale proponendo ricorso davanti al pretore di Ancona, in cui elencava undici casi più rilevanti di immotivato rifiuto delle sue iniziative professionali, e depositando copia fotostatica dei documenti ritenuti indispensabili ai fini della prova dei fatti allegati, consistenti in atti interni della banca relativi a pratiche per la concessione o l'ampliamento di fidi;
- che a distanza di circa due mesi dalla notificazione del ricorso, la C.R.F. S.p.A., con lettera in data 3 giugno 97, gli aveva contestato di aver prodotto documentazione riservata in giudizio e, con successiva comunicazione del 26 giugno 97, aveva disposto nei suoi confronti la dispensa dal servizio, con immediato allontanamento mediante monetizzazione del preavviso. Il ricorrente richiedeva, quindi, che fosse dichiarato nullo ed inefficace, o comunque annullato, il provvedimento di dispensa dal servizio irrogatogli e, per l'effetto, che la convenuta fosse condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a corrispondergli a titolo di risarcimento del danno tutte le retribuzioni perdute dal giorno della dispensa a quello della effettiva reintegra.
Nel relativo giudizio si costituiva la società convenuta che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto con ogni relativa conseguenza.
L'adito Giudice del lavoro - dopo essersi esaurita la procedura di urgenza (instaurata ex art. 700 C.P.C. dal C.) con provvedimento di rigetto (confermato dal Tribunale di Ancona in sede di reclamo ex art. 669-terdecies C.P.C.) - rigettava la domanda con condanna del ricorrente alle spese e il Tribunale di Ancona (quale Giudice del Lavoro di secondo grado) su impugnativa della parte soccombente e ricostituitosi il contraddittorio anche con l'intervento volontario nel giudizio di appello dell'avv. P.A. (il quale aveva difeso il C. nel precedente giudizio) - così decideva: "dichiara l'inammissibilità dell'intervento dell'avv. P.A. con atto depositato in data 18 gennaio 2000; rigetta l'appello proposto da W.C.; condanna l'appellante ed il terzo intervenuto, in via solidale, a rifondere all'appellata le spese processuali del presente grado".
Per quanto rileva ai fini del presente giudizio il Giudice di appello ha rimarcato che: 
a) "è da rilevare preliminarmente l'inammissibilità dell'intervento spiegato dal terzo avv. P.A., il quale si è limitato a chiedere l'accoglimento dell'appello proposto dal C., senza far valere un'autonoma posizione giuridica, il che qualifica detto intervento come 'ad adiuvandum'"; 
b) il C. ha prodotto in copia documenti aziendali riservati e "tale comportamento è idoneo a ledere in modo insanabile il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra datore di lavoro e dipendente ex art. 2105 C.C."; 
c) "il contrasto fra il diritto della banca alla riservatezza delle notizie concernenti la propria attività e l'esercizio del diritto del dipendente ad agire in giudizio, costituzionalmente riconosciuto dagli artt. 24 e 36 Cost., non può essere risolto in modo unilaterale attribuendo al lavoratore il potere di divulgare notizie riservate, ma deve trovare il giusto contemperamento attraverso lo strumento di tutela processuale apprestato dagli artt. 118 e 210 C.P.C., che, da un lato, richiede l'intervento del giudice, dall'altro, conferisce al datore di lavoro, di fronte ad un ordine di ispezione o di esibizione, la facoltà di scegliere se ottemperare all'ordine del giudice ovvero non divulgare il documento riservato, rimanendo però esposto alle conseguenze che il giudice potrebbe trarre da siffatto comportamento ai sensi dell'art. 116, secondo comma, C.P.C. e dell'art. 118 C.P.C.".
Per la cassazione di tale sentenza W.C. propone ricorso affidato a quattro motivi e sostenuti da "memoria", ex art. 378 C.P.C. 
La C.R.F. S.p.A. resiste con controricorso sostenuto da "memoria". 
L'intimato Avv. P.A. non si è costituito.

Motivi della decisione

I) Con il primo motivo il ricorrente - denunziando "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia" - censura la sentenza impugnata per avere dichiarato inammissibile l'intervento "ad adiuvandum" dell'avv. P.A. perché non integrante gli estremi di un autonomo diritto ex art. 344 C.P.C., senza, peraltro, "rendere edotte le motivazioni in forza delle quali l'interveniente non sarebbe stato portatore di un autonomo diritto nel giudizio di appello". 
Con il secondo motivo di ricorso sono addebitate al Tribunale di Ancona "violazione o falsa applicazione di norme di diritto e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia" in quanto nella sentenza impugnata:
a) "è stato dato per scontato che la produzione di documenti in giudizio integri gli estremi della divulgazione, senza fornire spiegazione alcuna su come questa affermazione potesse conciliarsi con il segreto professionale imposto a tutti gli operatori giuridici che, con quella documentazione, sarebbero, o sarebbero potuti, entrare in contatto, [sicché] a ben vedere, nella fattispecie per cui è causa, non c'è mai stata divulgazione di documenti, non sono mai stati integrati gli estremi di cui all'art. 2105 c.c., che stigmatizza espressamente quei comportamenti del dipendente finalizzati alla divulgazione di notizie attinenti l'organizzazione e i metodi di produzione dell'impresa datrice di lavoro e difettavano, 'ab origine', i presupposti di fatto per l'irrogazione di una sanzione disciplinare gravissima, qual è il licenziamento"; 
b) "il C. non ha mai sottratto alcunché avendo la piena disponibilità della documentazione depositata in giudizio... mentre il comportamento legittimante il licenziamento non è legato alla produzione di documentazione dell'azienda in un giudizio ove si vuole tutelare un proprio diritto, bensì alla sottrazione di documenti al datore di lavoro".
Con il terzo motivo il ricorrente - denunziando "violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 36 Cost. e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia" e sollevando all'uopo questione di legittimità costituzionale - rileva che "il diritto ad agire in giudizio per la tutela di diritti ed interessi legittimi, riconosciuto esplicitamente a tutti dall'art. 24 Cost., costituisce un principio supremo dell'ordinamento costituzionale, intimamente connesso con il principio di democrazia e consiste nell'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice ed un giudizio, ove poter, in concreto, difendere la propria posizione giuridica... [sicché] il lavoratore, per poter effettivamente e concretamente tutelare in giudizio i propri diritti, deve essere ammesso alla produzione di documentazione aziendale, mentre il Tribunale di Ancona, diversamente ragionando, ha erroneamente ritenuto prevalente l'art. 2105 c.c. sull'art. 24 Cost." e, di conseguenza, solleva "eccezione: di costituzionalità dell'art. 2105 cit., che prevede la sussistenza dell'obbligo di fedeltà in capo al lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, nella parte in cui non consente al dipendente, oggetto di vessazioni datoriali, di produrre, in un giudizio, la documentazione aziendale probatoria del proprio diritto od interesse ingiustamente leso o pretermesso, nella sua disponibilità", rimarcando, da ultimo, che "la prevalenza del diritto alla tutela giudiziale dei propri diritti sul diritto alla riservatezza ha ricevuto compiuta regolamentazione nella L. n°675/96, che ha disciplinato in modo organico e protettivo il diritto alla c.d. 'privacy'". 
Con il quarto motivo il ricorrente - denunziando "violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e degli artt. 1 e 3 della l. n° 604/66, nonché omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo" - addebita al Giudice di appello di avere erroneamente ritenuto sussistente nella specie il requisito della "proporzionalità tra infrazione e sanzione" e, inoltre, di "avere desunto intrinsecamente e potenzialmente dannosa la produzione in giudizio di documentazione aziendale, a prescindere dal fatto, dimostrato, che, in concreto, la C.R.F. S.p.A. non abbia sofferto alcun danno in conseguenza del predetto deposito giudiziale, e di avere pensato bene di 'liquidare' la questione circa la sussistenza dell'elemento doloso o, almeno colposo, nella condotta del ricorrente, facendo riferimento al discutibile principio per cui il C., in considerazione della propria qualifica dirigenziale, non poteva non sapere che la diffusione di documenti avrebbe comportato, almeno potenzialmente, un danno alla Banca", rilevando, altresì, che "in merito alla liceità della produzione di documenti aziendali, aveva consultato un legale di fama nazionale e proprio da questi aveva ricevuto positive assicurazioni circa la possibilità di depositare in giudizio documentazione aziendale, purché la stessa si fosse trovata nella materiale disponibilità del dipendente... tant'è vero che contro il cennato legale ('idest', l'avv. P.A.) ha instaurato una lite giudiziale culminata con l'emissione di un'ordinanza che obbligava tale legale a corrispondergli la somma di della L. 250.000.000, quale risarcimento del danno dallo stesso subito a causa della sua responsabilità professionale". 
II) Il primo motivo di ricorso come dinanzi proposto si appalesa inammissibile, in quanto sul "capo" della sentenza impugnata concernente la declaratoria di inammissibilità dell'intervento spiegato dall'avv. P.A. sussisteva per il C. - così come esattamente eccepito dalla controricorrente - una carenza di interesse ex art. 100 C.P.C., non essendo derivato al ricorrente medesimo un concreto ed apprezzabile pregiudizio per effetto di tale declaratoria. 
Infatti, nella specie, non può verificarsi che la parte ricorrente, mediante il motivo in esame e attraverso la riforma del cennato "capo" della decisione, possa comunque conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile, essendo del tutto ininfluente alla sua posizione processuale che l'avv. P.A. fosse legittimato, o meno, a intervenire in giudizio: per cui il primo motivo di ricorso deve essere respinto. 
III/a. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso - esaminabili congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi - appaiono, invece, fondati.
In particolare (come si è già constatato e che qui si rimarca sinteticamente) il ricorrente: 
a) con il secondo motivo, addebita al Tribunale di Ancona di aver dato per scontato che il C. avesse divulgato documentazione riservata ("recte", produzione in giudizio di fotocopia) riferentesi a clienti del proprio datore di lavoro e di aver così erroneamente statuito che il lavoratore avesse leso l'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. e fosse, pertanto, passibile della massima sanzione disciplinare, citando a conferma del "decisum" le non pertinenti sentenze di questa Corte n° 2560/93 e n° 6352/98; 
b) con il terzo motivo, censura la sentenza per non avere considerato che il diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost. (e di cui alla recente specifica applicazione ex art. 12 L. n°675/96) debba essere sempre assicurato ad ogni cittadino e, quindi, anche al lavoratore (e, nella specie, la produzione in giudizio della fotocopia dei documenti in questione erano indispensabili ai fini probatori per la tutela dei diritti giudizialmente azionati dal C.); 
c) con il quarto motivo, critica il giudice di appello per aver ritenuto sussistente in modo apodittico e, comunque, irrazionale il requisito della proporzionalità tra infrazione e sanzione disciplinare e intrinsecamente e potenzialmente dannosa per la banca la cd. "divulgazione" della documentazione aziendale anche se effettivamente la datrice di lavoro non avesse in concreto subito alcun danno dalla produzione in giudizio delle fotocopie "incriminate". 
III/b. In relazione alle cennate censure si evidenzia, al fine della precisa individuazione della fattispecie, che nella stessa sentenza impugnata è stato precisato che: 
- "è pacifico che il C., allo scopo di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa fatta valere nei confronti della banca davanti al pretore di Ancona in relazione a condotte da parte della direzione di quest'ultima che egli riteneva lesive della sua posizione professionale, abbia prodotto in copia documenti aziendali, della cui natura riservata non sembra possibile dubitate, trattandosi di pratiche inerenti alla concessione e alla modifica di fidi a clienti della banca"; 
- "detto comportamento è idoneo a ledere in modo insanabile il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra datore di lavoro e dipendenti ai sensi dell'art. 2105 c.c. e ciò sia in relazione alla potenzialità dannosa del fatto (per il pericolo di diffusione di dati concernenti la situazione economica di clienti della banca e l'esistenza di eventuali posizioni in sofferenza), sia per la posizione rivestita dal C., il quale era il direttore della filiale di Ancona"; 
- "la circostanza che nessun cliente abbia fatto rimostranze o che la conoscenza dei documenti sia in effetti rimasta circoscritta ai soggetti del processo nel quale sono stati prodotti, a loro volta tenuti al segreto, appaiono circostanze del tutto ininfluenti in quanto ai fini della rilevanza disciplinare della violazione dell'obbligo di riservatezza occorre prescindere dalla entità e dalla stessa esistenza in concreto del danno conseguente alla violazione"; 
- "quanto al rapporto di proporzionalità fra infrazione e la sanzione, nel rapporto di lavoro con un istituto di credito la violazione dell'obbligo di riservatezza comporta inevitabilmente la lesione dell'elemento fiduciario, a prescindere dall'entità e dalla stessa esistenza in concreto del danno conseguente a tale violazione, atteso il valore intrinseco, nell'attività bancaria, della segretezza e della riservatezza, valore non affidabile all'apprezzamento del singolo dipendente... e considerato che il C. non era addetto a mansioni esecutive o impiegatizie, ma rivestiva una elevata posizione funzionale quale direttore della filiale di Ancona della C.R.F. S.p.A., il che non può non determinare un giudizio di maggiore disvalore della condotta contestata". 
III/c. Tanto precisato in merito alla posizione fattuale, si rileva - in merito alle "violazione e falsa applicazione dell'art. 2105" (denunziate dal ricorrente) in relazione al cui disposto il Tribunale di Ancona ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare "de quo" - che la cennata norma, sotto la rubrica "obbligo di fedeltà", ha previsto (a carico del lavoratore) il "divieto di concorrenza" e il "divieto di divulgare notizie attinenti all'organizzazione ed ai metodi di produzione dell'impresa o fame uso in modo di poter recare ad essa pregiudizio". 
In base ad una rigorosa interpretazione della disposizione codicistica l'obbligo di fedeltà - pur nelle differenti ipotesi formalmente previste dalla norma - atterrebbe comunque al divieto per il lavoratore di svolgere attività concorrenziale con il proprio datore di lavoro e ciò di per sé o anche attraverso la divulgazione (non di ogni notizia di pertinenza dell'azienda, bensì solo) di quelle notizie "attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa". 
Peraltro, in relazione al prevalente orientamento giurisprudenziale, l'obbligo di fedeltà è venuto ad assumere un contenuto più ampio di quello desumibile dal testo della norma essendo stato ricollegato ai generali principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass., n° 4952/98).
In questo senso l'art. 2105 c.c. è stato fatto rientrare nell'ambito delle cd. "norme elastiche" [e di quelle (ad esse connesse ma con le stesse non confondibili) rientranti nella nozione di "clausola generale"], cioè delle norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un'opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione. 
Al riguardo deve precisarsi che l'applicazione delle disposizioni formulate in virtù dell'utilizzo di concetti giuridici indeterminati non coinvolge un mero processo di identificazione dei caratteri del caso singolo con gli elementi della fattispecie legale astratta e richiede, invece, da parte del giudice l'esercizio di un notevole grado di discrezionalità al fine di individuare nella specifica fattispecie concreta le ragioni che ne consentano la riconduzione alle nozioni usate dalla norma. Entro siffatta valutazione il giudice, oltre a risolvere la specifica controversia, partecipa in tal modo alla formazione del concetto (e, cioè, alla sua progressiva definizione in relazione al valore semantico del termine), con la precisazione che il significato adottato non può prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti all'interno di una data comunità in una certa epoca storica e, sotto concorrente profilo, dagli "attuali" principi generali (specie di rango costituzionale) propri dell'ordinamento positivo. 
Applicando tali canoni interpretativi per precisare l'attuale contenuto dell'"obbligo di fedeltà" nella specifica previsione codicistica sostanzialmente integrata (come si è dinanzi constatato) in via giurisprudenziale dai principi di "correttezza" e "buona fede" - in cui, pertanto, all'espressione sicuramente generica di "obbligo di fedeltà" si aggiungono le espressioni altrettanto generiche di "correttezza" e "buona fede", realizzandosi così l'ipotesi paventata in dottrina di "spiegare il contenuto di una clausola generale per mezzo di un'altra clausola generale" -, si deve prioritariamente tener conto che alla "solidarietà corporativa" caratterizzante l'art. 2105 c.c. (nella definizione, appunto, dell'obbligo di fedeltà) si è sostituita quella costituzionale nella proiezione economica e sociale ex art. 2 Cost. 
In questa logica può considerarsi naturale, anzi dovuta, una rilettura della norma che presupponga il mutato contesto sociale e ordinamentale alla stregua di quanto indicato in dottrina, per analoga questione, che la clausola generale della buona fede deve abilitare il giudice a concedere spazi ed effettività, più che a valori etici e morali collocati fuori del "territorio positivo", ai valori sui quali si fonda il sistema giuridico e per tale ragione vantano un titolo poziore per influenzare ed orientare l'adempimento dell'obbligazione. 
Sempre in dottrina è stato ritenuto che la cennata questione assume una speciale rilevanza nell'ambiente lavoristico, ove la normativa codicistica sembra assicurare "a priori" la prevalenza dell'interesse del datore di lavoro all'esercizio dei suoi poteri giuridici, con la conseguenza che anche nei casi nei quali permane una sfera di discrezionalità tecnica (e, dunque, sono ipotizzabili soluzioni diverse o alternative) il controllo giudiziario finalizzato ad accertare il rispetto della buona fede "in executivis" è stato in genere valutato negativamente. 
Questo è stato ritenuto con riferimento specifico agli artt. 2094 e 2106 c.c. - relativo all'esercizio del potere disciplinare a proposito del quale il potere datoriale è più sensibile ai limiti indotti dalla buona fede che consente, appunto, al giudice di "governare" il procedimento disciplinare di modo che la supremazia giuridica di una delle parti contrattuali non trasmodi in forme di "ingiusto" esercizio dal potere (di per sé "eccezionale") di irrogare pene private ai danni della controparte -, ma anche in relazione all'obbligo di fedeltà deve essere usata una chiave di lettura dell'art. 2105 c.c. che tenga conto, non soltanto della posizione del datore di lavoro, ma anche di quella del prestatore di lavoro (e dei diritti ad esso connessi). 
Conclusivamente, su questo punto, quanto ritenuto dalla giurisprudenza in merito all'estensione dell'obbligo di fedeltà mediante i principi di correttezza e buona fede ha da essere precisato nel senso che il giudice non può statuire sulle conseguenze derivanti dal generico "rapporto di fiducia" tra datore di lavoro e lavoratore nella considerazione unilaterale della posizione delle parti contrattuali, ma deve riferirsi alla nozione di "obbligo di fedeltà" nell'accezione semantica attualmente esistente nel contesto sociale ed alla stregua degli attuali principi generali dell'ordinamento (specie dell'art. 2 Cost). 
III/d. Tanto rimarcato in linea generale, vale ribadire, al fine di inquadrare la fattispecie nell'ambito dei cennati principi, che il Tribunale di Ancona ha ritenuto che il comportamento del lavoratore - che aveva prodotto in copia documenti aziendali nell'ambito di un giudizio dallo stesso instaurato - "è stato idoneo a ledere in modo insanabile il rapporto di fiducia che deve intercorrere fra datore di lavoro e dipendente e ciò sia in relazione alla potenzialità dannosa del fatto (per il pericolo di diffusione di dati concernenti la situazione economica di clienti della banca e l'esistenza di eventuali posizioni in sofferenza), sia per la posizione rivestita dal C., il quale era il direttore della filiale di Ancona" e, di conseguenza, ha considerato legittimo il licenziamento disciplinare irrogato per tale ragione dalla Banca. 
Per valutare l'esattezza di siffatta statuizione occorre, pertanto, operare una comparazione tra "l'obbligo di fedeltà" a carico del lavoratore (secondo l'accezione dinanzi precisata) e "il diritto di difesa" che deve essere riconosciuto ad ogni cittadino e, quindi, anche al lavoratore. 
A) Anzitutto, per affermare la violazione dell'obbligo di fedeltà, il Tribunale di Ancona sembra riportarsi conclusivamente all'ipotesi di "sottrazione di documenti aziendali", mentre - come si è dinanzi evidenziato - nella descrizione della fattispecie rileva "essere pacifico che il C. ha prodotto in giudizio copia di documenti aziendali": per cui l'infrazione asseritamente commessa dal C. deve essere fatta rientrare nell'ipotesi sicuramente più attenuata di allestimento di fotocopia e di successiva divulgazione (secondo modalità che verranno infra precisate) di documenti aziendali dei quali il lavoratore aveva normalmente la disponibilità, rispetto a quella di spossessamento e di sottrazione di documenti di proprietà dell'azienda datrice di lavoro. 
Che "la produzione in giudizio di fotocopie" configuri una ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di "sottrazione di documenti aziendali", oltre ad apparire ictu oculi evidente, viene confermato proprio dal Tribunale di Ancona che, in motivazione, si riporta alle sentenze di questa Corte n° 2560/93 e n° 6352/98 riferite espressamente alle ipotesi più gravi di impossessamento e di sottrazione di documenti aziendali (e, nella seconda di tale decisione, con l'aggravante di successiva divulgazione degli stessi presso enti pubblici esercitanti funzioni di controllo sull'azienda). 
Mentre in tali casi è stata confermata la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro, nell'ipotesi più lieve (analoga a quella ricorrente nella specie) di produzione in giudizio di copia di documenti aziendali questa Corte ha considerato, invece, illegittimo un provvedimento disciplinare espulsivo (Cass., n° 1144/2000, Cass., n° 6328/96). 
In particolare, con la prima delle cennate sentenze, dopo aver rilevato che "il lavoratore non aveva sottratto documenti aziendali, ma si era limitato a trame copia nel periodo in cui aveva avuto legittimamente accesso agli originali per ragioni di ufficio", viene statuito che "se il diritto del lavoratore a difendersi in giudizio per la tutela della propria posizione lavorativa deve avere un qualche contenuto, è difficilmente contestabile che lo stesso possa prendere nota, e in modo sufficientemente puntuale, di quella documentazione di cui abbia giustificata disponibilità" [Cass., n° 1144/2000 cit. e, all'incirca negli stessi termini, Cass., n° 6328/96 per la fattispecie in cui "il dipendente aveva tratto arbitrariamente dagli archivi aziendali e prodotto mediante fotocopie (in numero di oltre quattrocento) in giudizio instaurato per il riconoscimento di qualifica superiore, documentazione riservata"]. 
Anche con la recente sentenza n° 13188/2000 questa Corte, pur qualificando "in tesi" legittimo il licenziamento disciplinare nell'ipotesi più grave di "sottrazione di documenti aziendali", ha confermato - sotto il profilo della congruità della relativa motivazione - la decisione del giudice di merito "che aveva accertato l'illegittimità del comportamento del lavoratore, ma in conseguenza dell'assenza di conseguenze nocive del comportamento per il datore, aveva ritenuto non proporzionata la sanzione espulsiva adottata, con conseguente insussistenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo". 
B) Sempre per valutare la consistenza dei termini in comparazione, deve rimarcarsi che l'asserita divulgazione dei documenti aziendali è avvenuta mediante l'inserimento degli stessi nel fascicolo di parte del ricorrente-lavoratore in una controversia individuale di lavoro, per cui valevano le seguenti modalità tassativamente previste dal codice di rito: 
a) fascicolo depositato in cancelleria e consegnato al cancelliere (artt. 165 e 415 C.P.C. e artt. 36 disp. att. c.p.c. e segg.), che poteva essere ritirato solo dalla stessa pane previa autorizzazione del giudice (art. 169 C.P.C.); 
b) documenti in tal guisa prodotti, che dovevano essere "comunicati" esclusivamente a parte convenuta (artt. 165 e 414, n. 5, C.P.C. e art. 87 disp. att. c.p.c.). 
Di conseguenza - in base ad una corretta applicazione della normativa processuale valevole in materia - non può certo parlarsi, nella specie, di divulgazione (idest, di rendere noto a tutti, o ad una vasta cerchia di persone, un fatto o un contenuto di uno scritto) dei documenti aziendali in questione. Ciò a prescindere dal rilievo che - per le concrete modalità in cui si svolge il processo del lavoro (salvo diverse circostanze fattuali non indicate nella sentenza impugnata o dalla parte interessata) per il limitato numero dei soggetti che apprendono il contenuto dei documenti giudizialmente acquisiti (il giudice, il cancelliere ed i difensori: tutti tenuti al segreto di ufficio) - nell'ambito strettamente processuale è impossibile che la produzione di uno o più documenti abbia a comportare una loro divulgazione in senso proprio (Cass., n° 13188/00 cit.). 
C) Sull'esigenza di ritenere prevalente nella fattispecie considerata (nell'ambito delle precisazioni testé evidenziate) "il diritto di difesa", vale riportarsi - significativamente a conferma della cennata prevalenza - all'orientamento giurisprudenziale a mente del quale, a proposito dell'operatività di causa di giustificazione idonea a rendere legittima la rivelazione in giudizio di segreti di ufficio, è stata riconosciuta l'esigenza di riconoscere prevalente il diritto di difesa in giudizio rispetto alle esigenze di segretezza e buon funzionamento della Pubblica Amministrazione atteso che "la stessa dizione dell'art. 24 Cost. rivela la preminenza del diritto di difesa, 'inviolabile in ogni stato e grado del procedimento', sulla esigenza della riservatezza" (Cass. Pen., 24 gennaio 1989). 
È stato rammentato che la questione affrontata nella sentenza era sollevata fin dal 1876, in seno alla commissione ministeriale per la riforma dei codici, dall'allora, guardasigilli Pasquale Stanislao Mancini, il quale osservò che, nell'ipotesi in cui il segreto di ufficio fosse stato violato "per una necessità della propria difesa in giudizio", non si poteva esigere che il funzionario sacrificasse se stesso ad un interesse pubblico; la commissione deliberò pertanto di integrare la disposizione incriminatrice con la frase: "e fuori del caso di necessità di difesa in giudizio"; ma i progetti successivi non conservarono tale riserva. 
Riferimento storico che consente di rilevare che, specie alla luce del principio sancito dall'art. 24 Cost., il menzionato orientamento giurisprudenziale - che, valido per il "segreto di ufficio" nell'ambito del rapporto di pubblico impiego, appare ancor più condivisibile per i limiti dell'obbligo di fedeltà nell'ambito del rapporto di lavoro privatistico - non possa certo essere considerato eccessivamente "di tendenza". 
E, passando dal "riferimento storico" alla più recente normativa di legge in materia di tutela della "privacy" (recte: "tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali"), l'art. 12 della L. n°675/96 prevede espressamente che il consenso dell'interessato per il "trattamento" di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici non è richiesto quando detto "trattamento" sia necessario "per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento". 
Ciò a definitiva convalida della prevalenza del diritto di difesa in giudizio da riconoscersi al prestatore di lavoro rispetto ad un'accezione genericamente estesa dell'obbligo di fedeltà alla stregua del principio costituzionale sancito dall'art. 24. 
IV) È, di conseguenza, incorso in un decisivo errore il Tribunale di Ancona nel circoscrivere illegittimamente il diritto di difesa nei confronti del C. e, quindi, nel ritenere la produzione di copia dei documenti aziendali (da questi effettuata nell'ambito della linea difensiva perseguita) passibile della grave sanzione del licenziamento: decisione assunta in base ad un'errata interpretazione dell'art. 2105 c.c. che ha comportato la conseguente errata applicazione dell'art. 2119 c.c. e degli artt. 1 e 3 della L. n°604/66, poiché non sussistevano ab imis i presupposti per l'adozione di un provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo. 
Al riguardo la valutazione sulla gravità dell'infrazione - in particolare quando si tratti di giudizio di merito applicativo di "norme elastiche" - è soggetta sicuramente a controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge: in adesione così all'orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenze di questa Corte n° 10514/98 e n° 434/99, non ritenendo condivisibile il contrario indirizzo espresso nelle sent. n° 2616/90 e n° 154/97 in quanto, nell'esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica (che, per la sua stessa struttura, si limita ad indicare un parametro generale), il giudice di merito compie un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge richieda tale elemento: di conseguenza, la valutazione di conformità dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell'ambito della funzione nomofilattica che l'ordinamento ad esso affida. 
Nella conclusione di cui al presente giudizio trova ulteriore conferma - vale aggiungere sul piano dell'inquadramento della statuizione nell'ambito dei principi generali - l'orientamento delle Sezioni Unite a mente del quale "la concezione puramente sinallagmatica del contratto di lavoro può dirsi superata" (Cass., S.U., n° 7755/98, Cass., S.U., n° 14020/00), essendo stata riscontrata la insufficienza della concezione sinallagmatica a rappresentare l'intera realtà del lavoro nell'impresa, attraverso cui il prestatore di lavoro non consegue soltanto il compenso per l'utilità economica resa al datore, ma realizza i valori indicati negli artt. 2, 4 e 36 Cost. 
V) In definitiva, si deve concludere per l'illegittimità della sanzione disciplinare della "dispensa dal servizio" comminata a W.C. dalla C.R.F. S.p.A. mediante la lettera datata 26 giugno 1997 e, quindi, per la reintegra del C. nel suo posto di lavoro, con ogni relativa conseguenza. 
Debbono, pertanto, essere accolti il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso (con la conferma del rigetto del primo motivo), sicché la sentenza del Tribunale di Ancona va cassata, A) decidendo "nel merito" ex art. 384, secondo alinea del primo comma, C.P.C. (non essendo necessari sul punto ulteriori accertamenti di fatto) in ordine al capo dell'originaria domanda giudiziale dello odierno ricorrente concernente la declaratoria di illegittimità dell'impugnata "dispensa dal servizio" e la reintegra nel posto di lavoro - per cui deve essere dichiarata l'illegittimità del provvedimento disciplinare della dispensa dal servizio irrogata dalla C.R.F. S.p.A., con lettera in data 26 giugno 1997, nei confronti di W.C. e deve essere disposta l'immediata reintegrazione (ex art. 18 della L. n°300/70) dello stesso nel suo posto di lavoro presso detta società - e B) rimettendo la causa ad altro giudice ex art. 384 C.p.C., primo alinea del primo comma, limitatamente al "capo" dell'originaria domanda giudiziale concernente la richiesta di risarcimento del danno derivante dall'illegittima estinzione del rapporto lavorativo - per cui deve essere demandato al designato Giudice di rinvio di quantificare il risarcimento del danno (ai sensi della summenzionata normativa) derivato dalla statuita illegittimità del provvedimento disciplinare di "dispensa dal servizio" -.
Il giudice di rinvio - che si designa nella Corte di Appello di Bologna - provvederà, inoltre, alla liquidazione delle spese dell'intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo, il terzo ed il quarto motivo di Ricorso; rigetta il primo motivo di Ricorso; cassa la Sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo "nel merito", dichiara illegittimo il provvedimento disciplinare di "dispensa dal servizio" comminato a W.C. dalla C.R.F. S.p.A. con lettera in data 26.06.97 e dispone l'immediata reintegrazione del W.C. nel suo posto di lavoro; rinvia la causa - limitatamente alla domanda relativa alle questioni economiche conseguenti alla statuita illegittimità di detto provvedimento disciplinare - alla Corte di Appello di Bologna, che provvederà anche alla liquidazione delle spese dell'intero processo. 
Così deciso in Roma il 23.01.02.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 04.05.2002

◊ ◊ ◊

Cass. Civ., Sez. Lav., 15.10/07.12.04, n° 22923
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dai Magistrati:
Dott. MILEO Vincenzo, Presidente
Dott. FOGLIA Raffaele, Consigliere
Dott.TOFFOLI Saverio, Consigliere
Dott. AMOROSO Giovanni, Consigliere
Prof. DE RENZIS Alessandro, Cons. Relatore
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul Ricorso proposto da:
B. S., elettivamente domiciliato in Roma, V.le C. n° 77, presso lo studio dell'Avv. E.P., che lo rappresenta e difende per procura in calce al Ricorso, Ricorrente;

contro

S. S.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, Intimata;
per la cassazione della Sentenza n. 37003/01 del Tribunale di Roma del 25.9.2001/1 ...(illeggibile) 11.01 nella causa iscritta al n° 11459 del R.G. anno 1998; 
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15.10.2004 dal Cons. Dott. Alessandro De Renzis;
udito l'Avv. E.P. per il Ricorrente;
sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. FedericoSorrentino , che ha concluso per l'accoglimento del Ricorso.

Svolgimento del processo

Con Ricorso, depositato il 17.03.97, B.S. conveniva dinanzi al Pretore di Roma la S. S.A. per sentir dichiarare la nullità del licenziamento intimatogli il 21.01.97 con riferimento alla diffusione, concretizzatasi con la produzione in giudizio pendente tra le parti ed avente ad oggetto impugnativa del trasferimento del dipendente, di documenti aziendali di natura riservata , con le conseguenti statuizioni di carattere restitutorio e risarcitorio. 
La convenuta costituendosi contestava le avverse domande chiedendone il rigetto. 
All'esito dell'istruttoria l'adito Pretore con sentenza del 22.10.1997 rigettava la domanda. 
Tale decisione, a seguito di appello proposto dall'originario ricorrente, veniva confermata dal Tribunale di Roma con sentenza n° 37003/01. 
Il giudice di appello in particolare riteneva fondato l'addebito mosso al B. S. riguardante l'utilizzazione di documentazione aziendale di carattere riservato, relativa a rapporti con la clientela e a terzi estranei ed in ogni caso non rientrante nella disponibilità del dipendente. 
Ciò posto, lo stesso giudice rilevava che la violazione dei doveri di correttezza e lealtà da parte del B. S. nei confronti della società datrice di lavoro, lungi dal potersi ascrivere al legittimo esercizio di proprio diritto di difesa (anche in sede giurisdizionale), era da considerare come giusta causa di licenziamento, in quanto aveva fatto venir meno il vincolo fiduciario necessario tra l'impresa e il lavoratore.  
Il B. S. ricorre per cassazione con unico articolato motivo.
La società intimata non si è costituita.

Motivi della decisione

1. Con l'unico motivo del Ricorso il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 1175, 1375, 2119 C.C., degli artt. 1 e 3 della L. n°604/66, 2697, co. 1 C.C., art. 12, h), L. n° 675/96; artt. 2, 3, 4, 24 e 36 Cost. , 165, 169, 414 n. 5 C.P.C., 36 e seguenti e 87 disp. att. C.P.C.; nonchè omessa e contraddittoria motivazione sui punti decisivi della controversia (il tutto in relazione all'art. 360 n° 3, n° 4 e n° 5 C.P.C.). 
Sotto il profilo del vizio di motivazione dell'impugnata decisione il B. S. sostiene che il Tribunale, sul semplice accadimento meramente processuale, consistito nella produzione di documenti di provenienza aziendale nell'ambito di procedimento di impugnativa di trasferimento, ha fondato le uniche ragioni dell'intimato recesso immediato, erroneamente individuandovi l'insanabile violazione da parte del lavoratore dei doveri di riservatezza, di correttezza e di buona fede ed, in una parola, l'insanabile violazione del principio generale della lealtà. Lo stesso ricorrente aggiunge che il giudice di appello ha ritenuto emergenti dalla documentazione prodotta i punti relativi: a) alla natura interna dei documenti in questione; b) alla loro piena disponibilità da parte della società datrice di lavoro con esclusione di una eventuale legittima diffusione all'esterno del contesto aziendale; c) alla disponibilità di alcuni di detti documenti da parte del B. S. non in ragione del proprio ufficio, trattandosi di atti con data successiva alla cessazione del rapporto. Da tali premesse, ad avviso del ricorrente, lo stesso giudice ha tratto conclusioni immotivate con riguardo alla violazione dei doveri di correttezza e lealtà da parte del dipendente e al conseguente venir del vincolo fiduciario necessario tra impresa e lavoratore. 
Sotto il profilo dell'error in iudicando il B. S. afferma che l'impugnata sentenza ha ritenuto erroneamente legittimo il licenziamento comminatogli dalla società per il deposito nel giudizio ex art. 700 C.P.C., in corso tra le parti, di alcune copie fotostatiche di documenti riguardanti la prosecuzione dell'attività lavorativa negli uffici di Roma di esso ricorrente, anche dopo il suo trasferimento a Milano. A sostegno delle sue argomentazioni il ricorrente richiama l'orientamento espresso da questa Corte circa la liceità della produzione in giudizio di documenti riservati, stante la preminenza del diritto di difesa rispetto all'esigenza della riservatezza. 
2 Le censure esposte meritano di essere condivise nei limiti che di seguito si indicano. 
Va premesso che dall'esame comparativo della giurisprudenza di questa Corte la quaestio iuris se la produzione in giudizio di documentazione aziendale riservata costituisca giusta causa di licenziamento risulta decisa in modo non uniforme. 
Un primo orientamento è nel senso dell'illegittimità di una tale produzione, in quanto la violazione dell'obbligo della riservatezza comporta inevitabilmente la lesione dell'elemento fiduciario e può quindi integrare gli estremi della giusta causa (o giustificato motivo) di licenziamento (ex plurimis Cass. n° 2560/93; Cass. n° 4328/96; Cass. n° 6352/98; Cass. sentenza n° 13188/01). Un secondo orientamento ritiene che la "produzione in giudizio di fotocopie" di documenti aziendali riservati costituisca una ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di "sottrazione di documenti", sicchè, nel quadro concreto delle circostanze di fatto, il licenziamento disciplinare può essere considerato illegittimo (Cass. sentenza n° 1144/00; Cass. sentenza n° 4328/96). 
Una variante del secondo orientamento è costituito dal più recente filone giurisprudenziale (in particolare Cass. n° 6420/02 e Sent n° 12528/04), che ha riconosciuto la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza di dati in possesso di enti privati o pubblici, tanto più che la stessa normativa (art. 12 L. n°675/96 e successive modifiche ed integrazioni) in tema di tutela della riservatezza (c.d. privacy) non richiede il consenso dell'interessato nell'ipotesi in cui il trattamento sia necessario "per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattali esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento". 
Ciò esposto sullo stato della giurisprudenza, questo Collegio ritiene che dalla stessa possa trarsi la fondamentale distinzione tra produzione in giudizio di documenti aziendali riservati al fine di esercitare il diritto di difesa, di per sè da considerarsi lecita (al riguardo ampie ed esaurienti sono le argomentazioni svolte nelle ricordate sentenze n° 6420/02 e n° 12528/04), e impossessamento degli stessi documenti, le cui modalità vanno in concreto verificate. 
Sulla base di tale impostazione la decisione impugnata mostra delle lacune, atteso che in relazione alle premesse circa l'utilizzazione di documenti aziendali riservati per finalità difensive, ritenuta non conforme a correttezza e buona fede, la sentenza stessa ha trascurato di verificare se le modalità di acquisizione di tali documenti da parte del dipendente - dopo la sua fuoruscita dalla sede di Roma - fossero quelle indicate nella comunicazione della società del 21.1.1997 (introduzione senza autorizzazione in azienda o induzione di qualcuno ad asportare i documenti per suo conto).
Sotto tale aspetto generica appare la motivazione, laddove si limita ad osservare ad abundantiam che l'appellante ha avuto la disponibilità di alcuni di detti documenti non in ragione del proprio ufficio, trattandosi di atti con data successiva alla cessazione del rapporto, elemento questo di maggiore "estraneità" della documentazione dai compiti propri e normali del dipendente che ne faccia un uso divulgativo. 
3. In conclusione in base alle precedenti considerazioni e nei limiti suindicati il ricorso va accolto e per l'effetto la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma. 
Il giudice di rinvio procederà alle verifiche evidenziate in precedenza con riesame dell'intera vicenda anche in relazione alla procedura di trasferimento.
Lo stesso giudice provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione ai sensi dell'art. 385 - ultimo comma - C.P.C.

P.Q.M.

La Corte accoglie il Ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 15.10.04.
Depositato in Cancelleria il 07.12.04

◊ ◊ ◊

Cons. di Stato, Sez. V, 11.07/31.12.03, n° 9276/03 Reg. Dec.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,
Sezione Quinta,
ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul Ricorso in appello n° 3893/1999 R.G., proposto dalla sig.ra R.P., rappresentata e difesa dagli avv.ti P.A.M.C. e G.P. ed elettivamente domiciliata nello studio di quest’ultimo in Roma, Via C.M. n° 7,

contro

L’Unità Sanitaria Locale di P. (oggi AUSL M.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti F.P. e R.R. ed elettivamente domiciliata in Roma, Via C. n° 14, presso lo Studio dell’avv. M.L.;
per la riforma
della Sentenza del T.A.R. della Emilia Romagna, Bologna sez. I, n° 87/1998 depositata in data 13.03.98.
Visto il Ricorso in appello con i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio della parte appellata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa; 
Alla pubblica udienza del 11 luglio 2003, relatore il consigliere Michele Corradino;
Udito l’Avv. R.R.;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con la Sentenza appellata il T.A.R. dell’Emilia Romagna ha respinto i ricorsi n° 2078/90, 2079/90 e 766/1991 con cui l’odierna appellante aveva gravato, rispettivamente, un provvedimento disciplinare di destituzione, un provvedimento disciplinare di sospensione dalla qualifica ed il provvedimento di estinzione del rapporto di impiego, tutti adottati nei suoi confronti. 
Con la stessa sentenza il T.A.R. dell’Emilia Romagna ha dichiarato improcedibile il ricorso n° 1812/90 proposto dall’odierna ricorrente in appello avverso gli stessi atti gravati successivamente con i richiamati ricorsi n° 2078/90, 2079/90. 
La sentenza è stata appellata dalla sig.ra R.P. che contrasta le argomentazioni del T.A.R. dell’Emilia Romagna.
L’Unità Sanitaria Locale di P. (oggi AUSL M.) si è costituita per resistere all’appello.
Alla pubblica udienza del 11 luglio 2003, il ricorso veniva trattenuto per la decisione.

DIRITTO

L’Appello è fondato, e conseguentemente vanno annullati con la pronuncia gravata anche gli atti impugnati.
1. Con il primo motivo di ricorso l’appellante denuncia la mancata disamina, da parte del giudice di prime cure circa i ricorsi di primo grado n° 2078/90 e 2079/90 R.G., dei rapporti fra i diritti discendenti dalle previsioni costituzionali ex artt. 24 e 32, rispettivamente diritto alla difesa e alla salute, e obblighi di fedeltà e di riservatezza gravanti sul pubblico dipendente.
Il motivo di ricorso pone la delicata questione concernente le relazioni fra situazioni soggettive, attive e passive, che, in relazione ad un concreto episodio di vita, entrano in conflitto fra loro, sì da imporre il quesito concernente quale dei “beni” protetti abbia carattere recessivo e possa (o debba) essere sacrificato in favore del bene ritenuto prevalente. 
2. La vicenda per cui è causa vede fronteggiarsi da un lato il diritto di difesa (nella specie da una accusa criminale), dall’altro l’obbligo di fedeltà del lavoratore nei confronti della parte datoriale, che si specifica ulteriormente nell’osservanza della riservatezza sui dati appresi in occasione dello svolgimento dei propri compiti. Pare opportuno, pertanto, definire in via preliminare i contenuti delle situazioni soggettive appena richiamate, sulla base dell’opera di “riempimento” di fonte giurisprudenziale e delle osservazioni della dottrina.
La Costituzione repubblicana, accanto alle garanzie relative alla giurisdizione di diritto oggettivo concernenti la giurisdizione (quali il principio della riserva di giurisdizione e del giudice naturale) proclama veri e propri diritti soggettivi; fra questi, in ordine di importanza, il diritto-potere di agire in giudizio, proclamato dall’art. 24 Cost., nonché il conseguente diritto di difesa definito “inviolabile” dal secondo comma del medesimo articolo. Le due componenti, azione e difesa, danno vita alla situazione complessa denominata “diritto alla tutela giurisdizionale”, quasi ad evidenziare gli stretti legami esistenti fra le due componenti appena richiamate. Dalla giurisprudenza costituzionale si inferisce che il diritto di difesa fa perno sul cosiddetto contraddittorio fra le parti, inteso quale concreta ed effettiva possibilità accordata alle parti di tutelare le proprie ragioni, formulando domande, eccezioni, opponendosi alle domande ed eccezioni delle altre parti, prima che il giudice si pronunci (si vedano, per tutte, le sentenze nn° 46/57 e 83/69 della Corte Costituzionale). A completare il quadro, così brevemente delineato, si affianca la previsione contenuta nell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall'Italia con L. n° 848/55) che contiene una norma la quale afferma, in via generale, il principio di garanzia dei diritti di difesa dell'imputato, che deve essere posto in condizioni di discolparsi dalle accuse che gli vengono mosse.
Sull’altro versante, tra gli obblighi che l'impiegato è tenuto ad adempiere, l'obbligo di fedeltà, che ha rilievo costituzionale e carattere pubblicistico, rappresenta il substrato su cui si sviluppa l'atteggiamento spirituale che lo stesso impiegato deve avere e conservare sempre nei confronti dell'amministrazione, dell'attività che è chiamato a svolgere e della collettività al cui servizio egli si pone, osservando "lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato". Ne costituiscono corollari il dovere di adempiere alle pubbliche funzioni "con disciplina ed onere", l'obbligo di tenere una "condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni", il giuramento prestato all'atto del passaggio in ruolo, l'obbligo di osservare il segreto d'ufficio. Ma, l'impiegato ha quale ulteriore obbligo fondamentale quello di dedicare le sue energie lavorative alle dipendenze dell’ente pubblico secondo canoni di particolare correttezza e diligenza, improntati alla collaborazione con i superiori e i colleghi, nonchè alla guida e all'esempio dei dipendenti "in modo da assicurare il più efficace rendimento del servizio" e all'obiettivo di "stabilire completa fiducia e sincera collaborazione fra i cittadini e l'amministrazione" (artt. 54 e 98 Cost. e art. 11 e ss. t.u. delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con d.P.R. 10.01.57 n. 3).
3. L’attualità della questione è dimostrata dalla frequenza dei casi sottoposti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Pare opportuno, a tal proposito, richiamare una recente sentenza della Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento disciplinare adottato da un Istituto di credito nei confronti di un proprio dirigente che nell’ambito di un giudizio intentato avverso il datore di lavoro aveva prodotto documenti aziendali riservati (corrispondenza e schede attinenti alla clientela) di cui aveva la materiale disponibilità per ragioni d’ufficio. Al riguardo ha ritenuto la Suprema Corte che l’art. 2105 c.c. non deve essere considerato come una norma rigida; in particolare, con la sentenza della Suprema Corte, n° 4952/98, era stata sancita la riconduzione dell’art. 2105 c.c. nel novero delle c.d. norme elastiche norme strutturate come clausole generali, <<il cui contenuto richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un’opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione>>. In precedenza, peraltro, la Corte di Cassazione con le pronunce n° 6328/96 e n° 1144/00, aveva ritenuto legittimo il comportamento del lavoratore subordinato che prende nota, eventualmente fotocopiandola, di documentazione aziendale nella propria materiale disponibilità al fine di produrla in un giudizio a tutela dei propri diritti. Partendo da tali presupposti, la Corte di Cassazione giunge a suggerire una chiave di lettura del contenuto dell’obbligo di fedeltà non riferito alla sola posizione rivestita dalla parte datoriale, ma strutturata in maniera tale da permettere una valutazione concreta anche della posizione del lavoratore, dei suoi comportamenti, delle situazioni che, in concreto, ne hanno caratterizzato l’agire.
4. Dette considerazioni sono pienamente condivise dal Collegio, il quale evidenzia che da tempo la giurisprudenza di questo Consesso è stata chiamata a risolvere i problemi discendenti dalla ricerca di un delicato equilibrio nei rapporti fra diritto di difesa e di azione e situazioni soggettive confliggenti. E’ necessario ricordare quanto statuito da questo Consesso secondo cui in virtù dell'art. 16 D.L. n° 135/99 - che integra la previsione di cui all'art. 22, co. 3, L. n° 675/96 - il diritto di accesso, ancorchè nella forma meno incisiva della sola visione, senza estrazione di copia, prevale rispetto a quello sulla riservatezza anche intesa nel suo nucleo più intimo costituito dai dati sensibili: ovviamente a condizione che la conoscenza degli stessi sia necessaria per provvedere alla cura o difesa di interessi giuridici (Cons. Stato, Sez. VI, n° 1882/01). In maniera ancora più nitida è stato affermato che nel conflitto tra principio di riservatezza o pregiudizio eventuale del terzo, ed esigenze di difesa di un proprio diritto, deve consentirsi l'esercizio del diritto d'accesso alla documentazione amministrativa, a garanzia di dette esigenze di difesa, sia pure nella forma più attenuata della visione degli atti. (Cons. Stato, Sez. VI, n° 65/99).
Orbene, nel caso che ci occupa il Collegio ritiene che l’osservanza dell’obbligo di fedeltà dovuto dalla sig.ra R.P. alla amministrazione-datore di lavoro, non poteva comportare la compressione del suo diritto di difesa (di fonte costituzionale, come detto sopra) considerando, inoltre, che nella vicenda in esame non si trattava (come nel riportato caso al vaglio della Suprema Corte di Cassazione) di mera azione risarcitoria intentata nei confronti del datore di lavoro, ma di esercizio del diritto di difesa in relazione ad un fatto costituente reato. Se è pur vero, come è stato correttamente affermato, che l'obbligo di fedeltà dell'impiegato non può certo qualificarsi come sola affermazione di un principio etico, posto che alla sua base c'è, in positivo, il dovere dell'impiegato di assolvere ai compiti del proprio ufficio nell'interesse dell'amministrazione, e, in negativo, quello di astenersi da qualsiasi azione o comportamento che comunque possa essere pregiudizievole per l'amministrazione stessa, non può disconoscersi che il concreto contenuto di tale obbligo (id est, i contegni che la parte datoriale può esigere) dipende dall’insieme delle circostanze modali, soggettive ed oggettive del caso concreto. Nel caso che ci occupa, pertanto, non può essere ravvisata una violazione dell’obbligo di fedeltà (e del connesso dovere di riservatezza) da parte della dipendente che utilizzò il materiale sottratto alla parte datoriale per produrlo in giudizio. 
5. Va inoltre accolto l’altro motivo di ricorso proposto dall’appellante che invoca il disposto dell’l’art. 53 del D.P.R. n° 221/50 - Approvazione del regolamento per la esecuzione del D. L.vo n. 233/46, sulla ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell'esercizio delle professioni stesse - Capo V – il quale stabilisce che <<I ricorsi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie sono proposti dall'interessato o dal prefetto o dal procuratore della Repubblica, nel termine di trenta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione del provvedimento. Il ricorso dell'interessato ha effetto sospensivo quando sia proposto avverso i provvedimenti di cancellazione dall'Albo o avverso i provvedimenti disciplinari, ad eccezione di quelli previsti dai precedenti artt. 42 e 43>> per dedurre l’illegittimità degli atti impugnati. Invero risulta che il provvedimento di estinzione del rapporto di pubblico impiego fu adottato dall’amministrazione sanitaria in data 12 febbraio 1991 e, dunque, in un tempo in cui la cancellazione dall’albo (presupposto del provvedimento estintivo del rapporto) non era ancora definitiva, posto che il ricorso interposto dalla sig.ra R.P. in data 15 marzo 1991 esplicava effetto sospensivo dell’efficacia dell’atto gravato. 
Per le ragioni esposte, assorbito quant’altro, l’appello va accolto. 
Sussistono giuste ragioni per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione V) accoglie l’Appello e per l’effetto annulla la Sentenza gravata nonché, in accoglimento del Ricorso di I grado, gli atti impugnati in tale grado. 
Compensa le spese di giudizio. 
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa. 
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio dell’11.07.03 con l'intervento dei sigg.ri:
Agostino Elefante Presidente,
Giuseppe Farina Consigliere,
Claudio Marchitiello Consigliere,
Aniello Cerreto Consigliere,
Michele Corradino Consigliere estensore.

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Michele Corradino F.to Agostino Elefante

IL SEGRETARIO
F.to Luciana Franchini

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 31.12.03

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