Penale

PENALE - Diffida di pagamento e delitto di estorsione, rileva l'ingiustizia del profitto.

false fatturazioni

Integra gli estremi del reato di estorsione, e non quello di truffa, la minaccia di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l'agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto.
Per la Cassazione, infatti, falsificare delle fatture e poi paventare, ricorrendo all'intervento stragiudiziale d'un legale, azione giudiziarie qualora l'asserito creditore non corrisponda la somma pretesa, costituisce estorsione, punita dall'art. 629 c.p.

Sussistono nella fattispecie sia il requisito dell'esercizio di un diritto o della minaccia di esercitarlo allo scopo di realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante all'agente (talché il pregiudizio che è prospettato al soggetto passivo, mediante l'iniziativa giudiziaria formalmente legittima, non è funzionale al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante, costituente un profitto al quale non si abbia diritto), sia (da verificare, volta per volta) il requisito d'una richiesta eccessiva della quale l'agente sia consapevole (poiché del tutto sproporzionata rispetto all'entità del diritto leso).
L'ingiustizia del profitto che si intende realizzare rappresenta, secondo la S.C., proprio il discrimine tra richiesta legittima del dovuto e illegittima intimidazione, penalmente (e aspramente!) perseguibile.

Cass. Pen., Sez. II, 29.11/17.12.2012 n° 48733

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COSENTINO Giuseppe M., Presidente
Dott. IANNELLI  Enzo, Consigliere
Dott. CASUCCI   Giuliano, Consigliere
Dott. TADDEI    Margherita B., Consigliere
Dott. RAGO      Geppino, Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:

Sentenza

su Ricorso proposto da: P.A., nato il (omissis);
Avverso l'Ordinanza del 09.07.2012 del Tribunale di Genova;
Visti gli atti, l'Ordinanza ed il Ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito  il  Procuratore  Generale,  Dott. Antonio Gialanella, che ha concluso per l'inammissibilità.

Fatto
1. Con Ordinanza del 09.07.2012, il Tribunale del Riesame di Genova confermava l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. di Sanremo in data 12.06.2012, nei confronti di P.A., titolare dell'impresa familiare "P.A. P.M.", per i reati di estorsione e tentata estorsione.
I fatti per i quali il ricorrente risulta indagato sono i seguenti.
Il prevenuto, dopo aver emesso false fatture recanti l'indicazione della realizzazione di lavori di manutenzione-pulizia per nulla o solo in minima parte effettuati, si recava presso studi legali ove prospettava il proprio intendimento di ottenere il pagamento delle fatture, così inducendo il professionista ad inviare all'apparente debitore una lettera raccomandata con la quale veniva richiesto il pagamento dell'importo indicato nel falso documento con la prospettazione, in caso di mancato pagamento, di "procedere secondo legge" o di esperire la procedura ingiuntiva ovvero richiedendo l'emissione di decreto ingiuntivo.
Le descritte condotte, in un caso, andarono a buon fine in quanto una vittima, a titolo di transazione, corrispose somme non dovute, mentre, in altri casi, si arrestarono a livello di tentativo, perché le persone alle quali era stato richiesto il pagamento delle somme non dovute rifiutarono di pagare e si rivolsero alle Forze dell'Ordine ovvero si opposero al decreto ingiuntivo.
2. Avverso la suddetta Ordinanza, il prevenuto, a mezzo del proprio difensore, ha proposto Ricorso per Cassazione, deducendo l'erronea applicazione dell'art. 629 c.p.
Il ricorrente ritiene che nessuna delle attività da lui compiute integrerebbero il reato di estorsione, non essendovi stata alcuna minaccia volta alla coartazione delle persone alle quali richiedeva del denaro non dovuto.
Secondo il P.A. - diversamente da quanto sostenuto sia dal G.I.P. che dal Tribunale del Riesame - la prospettazione da parte di un legale di un procedimento secondo legge o la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo non costituirebbero una minaccia tale da integrare gli estremi dei reati di estorsione o di tentata estorsione contestatigli: infatti, la minaccia ed il danno paventato alle persone offese non potrebbero dirsi ingiusti e idonei ad ingenerare nelle stesse alcun timore, in quanto il soggetto passivo, se consapevole dell'infondatezza e dell'ingiustizia delle pretese, non potrebbe essere intimidito dalla mera intenzione, esplicitata da un legale, di agire in giudizio, ben potendo resistere nell'eventuale giudizio civile nel quale avrebbe potuto dimostrare l'illegittimità della pretesa creditoria.
Il ricorrente, infine, conclude che, a tutto concedere, le proprie condotte andrebbero inquadrate sotto la fattispecie degli artt. 56 e 640 c.p.

Diritto
1. Il Ricorso è infondato, per le ragioni di seguito indicate.
2. In via di fatto, dall'impugnata ordinanza, risulta che il P.A. ha, in pratica, ammesso sostanzialmente l'addebito, avendo dichiarato che "ho fatto qualche piccolo lavoro presso le persone offese tuttavia ho di molto aumentato le fatture, anche aggiungendo lavori che non avevo mai fatto e questo per ottenere qualcosa di più" (cfr. pag. 7): infatti, il Ricorso non è tanto incentrato su questioni di fatto, quanto su una questione di diritto e cioè sulla configurabilità del contestato delitto di estorsione.
Pertanto, la questione di diritto che il ricorrente ha sottoposto a questa Corte di legittimità può essere così enunciata: se la prospettazione ad apparenti debitori - in caso di mancato pagamento dell'importo richiesto ed indicato in un documento precedentemente falsificato - di "procedere secondo legge" o di esperire la procedura ingiuntiva ovvero la richiesta di emissione di decreto ingiuntivo sia da considerarsi minacciosa.
3. Come è noto, la minaccia necessaria per integrare gli estremi dell'estorsione (o della tentata estorsione) consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell'agente.
Secondo la previsione normativa, la condotta minacciosa deve causare un doppio evento, ossia la coartazione della volontà della vittima e la disposizione patrimoniale.
L'esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo - quali indubbiamente sono il concreto esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di tali iniziative - non presentano, di per sé, i caratteri della minaccia necessaria per l'astratta configurabilità del delitto di estorsione: infatti, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, le suddette condotte sono esclusivamente dirette alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente.
Tuttavia, se l'esercizio del diritto o la minaccia di esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l'iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante.
Quest'ultima, poiché non trova alcuna giuridica giustificazione in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare.
In questo senso si è già espressa questa Corte, avendo statuito che "in tema di estorsione, anche la minaccia di esercitare un diritto - come l'esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva - può costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare l'elemento materiale del reato quando tale minaccia sia finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore, non giuridicamente tutelato": Cass. 16618/2003, rv. 224399.
Dunque, non ogni prospettazione alla controparte o a persona terza di un'azione giudiziaria deve essere considerata come minaccia: è tale solo quella che è finalizzata a conseguire un profitto ulteriore ed ingiusto, in quanto il discrimine tra legittimo esercizio di un diritto o la minaccia di esercitarlo è da individuarsi proprio nell'ingiustizia del profitto che si intende realizzare.
In tale prospettiva, è indubbio che una richiesta del tutto sproporzionata ed eccessiva della quale l'agente sia consapevole, possa essere sintomatica dell'intenzione di conseguire un ingiusto profitto, come ha statuito questa Corte di legittimità secondo la quale alla richiesta di una somma di denaro a titolo di risarcimento di danni, normalmente legittima, assume il carattere di illecito e integra gli estremi del delitto, tentato o consumato, di estorsione quando sia del tutto sproporzionata alla entità del diritto leso e sia fatta con riserva implicita o esplicita di far valere le proprie ragioni nei modi di legge, ove la somma non venga integralmente pagata, sì da considerarsi una vera minaccia al fine di conseguire una ingiusta locupletazione": Cass. 273/1970, rv. 115339; Cass. 7380/1986, rv. 173383 ha ribadito che "la minaccia idonea a configurare il delitto di estorsione può assumere forme ben diverse, come quella della prospettazione di azioni giudiziarie, che si traduce in un male ingiusto nel caso di pretestuosità della richiesta, o come quella della denunzia penale, che si rivela ingiusta quando la utilità in cui si concreta non sia dovuta e di ciò l'agente sia consapevole".
Pertanto, si può affermare che il concreto esercizio di un'azione esecutiva oppure la prospettazione di convenire in giudizio il soggetto passivo o di un'azione esecutiva costituiscano una minaccia e, dunque, una illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di estorsione alle due seguenti condizioni:
a) la minaccia dev'essere finalizzata al conseguimento di un profitto al quale non si abbia diritto;
b) l'agente dev'essere consapevole dell'illegittimità o della pretestuosità della propria condotta, anche se l'illegittima pretesa venga fatta valere in modo apparentemente legale.
4. Sulla base di quanto illustrato, deve, quindi, disattendersi la tesi difensiva, che, da un lato, esclude che l'esercizio di un'azione giudiziaria o la sua prospettazione, ancorché infondate, possano considerarsi, di per sé, un male, e, dall'altro, fa dipendere il verificarsi del male ingiusto non già dalla volontà dell'agente, bensì dal comportamento della vittima che non ritenga di rivolgersi al giudice (civile) per tutelare i propri interessi.
Entrambi i profili presuppongono che il processo sia la sede in cui le ragioni della parte trovino necessariamente una tutela, sicché la persona offesa non avrebbe nulla da temere dal contraddicono processuale.
Sennonché, tale concezione del processo, confligge con le concrete dinamiche processuali che possono rendere qualsiasi vicenda giudiziaria aleatoria - secondo il vecchio brocardo "habent sua sidera lite" - oltre al fatto, di comune esperienza, che il processo, di per sé, come intuì un grande giurista, costituisce una pena (e, quindi, un danno) sia in termini economici che di stress emotivo.
Deve, pertanto, ritenersi che l'ingiustificato coinvolgimento in un'azione legale, già avviata o anche solo prospettata, costituisce - per chiunque sia consapevole dell'ingiustizia della pretesa - una minaccia.
Sul punto, va, quindi, data continuità a quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "il manifestato proposito di ricorrere al giudice può integrare il reato di estorsione, ove ricorrano particolari circostanze, da valutarsi caso per caso in relazione alla qualità delle persone ed alle modalità con le quali il proposito stesso è manifestato. Si è in presenza di un comportamento minaccioso, quando il ricorso alla giustizia è prospettato come mezzo per il raggiungimento di uno scopo che sia estraneo al fine che è proprio dell'azione che si intende intraprendere: in tal caso non sussiste alternativa che di soggiacere alla ingiusta pretesa o subire le conseguenze dannose dell'azione giudiziaria": Cass. 5664/1974, rv. 88648).
D'altra parte, è fuorviante ritenere che la vittima della illegittima richiesta di pagamento abbia l'onere di coltivare un'azione giudiziaria o di opporsi ad essa o ad un'azione esecutiva, al fine di far accertare l'illegittimità e la pretestuosità dell'iniziativa avversaria: così ragionando - e cioè imputando alla volontà della persona offesa l'eventuale verificarsi del male ingiusto dalla stessa patito - si compirebbe un'indebita inversione di prospettiva, essendo essa vittima di intimidazione e di coartazione della volontà, e non già la "causa dei propri mali".
5. Quanto detto consente di disattendere anche la subordinata testi difensiva secondo la quale i fatti addebitati al ricorrente configurerebbero l'ipotesi della truffa e della tentata truffa.
Infatti, si sarebbe potuta astrattamente ipotizzare il delitto di cui all'art. 640 c.p. solo qualora la condotta dell'odierno ricorrente si fosse arrestata alla falsificazione delle fatture ed alla richiesta di pagamento delle stesse agli apparenti debitori.
Tuttavia, poiché il ricorrente non si è limitato a porre in essere una condotta truffaldina (richiesta di un pagamento non dovuto), ma ha adottato una strategia indubbiamente intimidatoria, consistente nella minaccia azioni legali, generiche o anche specifiche, oppure, in certi casi, perfino nell'inizio di un'azione esecutiva, la fattispecie è stata correttamente qualificata come estorsione.
6. Nel respingere il Ricorso, può, quindi, enunciarsi il seguente principio di diritto: "integra gli estremi del reato di estorsione e non quello di truffa la minaccia di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l'agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto".
Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il Ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si provveda a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p.
Così deciso in Roma, il 29.11.2012.
Depositato in Cancelleria il 17.12.2012

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