INTERNATIONAL TRADE - Italia al 56° posto nel Doing Business mondiale. Sarebbe ora che l'Italia disciplinasse le procedure concorsuali d'insolvenza transnazionale.
L’imprenditore straniero o il fondo d’investimento si pongono molte domande, al momento di valutare se mettere i propri denari in un’impresa italiana, poiché chiedono di conoscere preventivamente quali regole presiederanno all’eventuale apertura d’una procedura concorsuale, se gli affari andassero male, e come fare ad evitare la dispersione di beni della decotta società, in una situazione in cui gli organi della procedura non dialogano né si coordinano con quelli omologhi posti al di fuori dei confini nazionali e in cui l’apertura di procedure secondarie in altri Stati rappresenta un grande punto interrogativo per il creditore. Tra le riforme che l’Italia a tutt’oggi ignora, quindi, ve ne è una che invece meriterebbe tutta l’attenzione del governo e del legislatore della Penisola: serve disciplinare in modo uniforme il fallimento transnazionale, cioè il fenomeno dell’insolvenza di imprese presenti in più Stati.
«Tenere la 56esima posizione sarà dura», ha scritto ieri Mario Sensini sul Corriere della Sera, evidenziando come «in questi mesi l’Italia ha fatto semplificazioni e riforme economiche forse come pochi altri Paesi al mondo, ma rischiamo ugualmente di scivolare giù di qualche gradino nella graduatoria della Banca Mondiale dei Paesi dove è più facile fare affari».
Per quanto, sotto certi profili, contestata, la classifica redatta da esperti mondiali di 189 nazioni è in effetti diventata in questi ultimi tredici anni un elemento si seria valutazione da parte degli investitori stranieri e, in generale, dei mercati internazionali, sempre alla ricerca di stime sull’affidabilità dei partner commerciali e sull’efficienza ed efficacia degli ordinamenti giuridici, tra cui quello del BelPaese. La rilevanza dell’argomento è fuori discussione, poiché è intimamente connessa all’attuale espansione dei mercati e alle loro reciproche interferenze a livello globale. Invero, quando il default concerne un’azienda che operi sotto giurisdizioni differenti, direttamente o medianti filiali e/o assets di varia natura, spesso addirittura con la dinamica del «gruppo», diventa prioritario - come stigmatizzato dal massimo esperto di «multinational insolvency system», il Prof. Daniele Vattermoli, al Master di II Livello in «International Business Law» che si tiene all’ateneo dell’urbe La Sapienza - che venga assicurato un regime prevedibile e certo delle dinamiche delle procedure concorsuali che potranno interessarla (dalla liquidazione al concordato sino all’eventuale fallimento vero e proprio, dalla vendita in blocco dei cespiti alla riorganizzazione se l’azienda ritorna in bonis), sia pure apportando alcuni accorgimenti.
Per i casi di «cross-border insolvency» è già disponibile un modello di legge uniforme, predisposto nel 1997 da UNCITRAL (United Nations Commission on International Trade Law) ed avente la finalità di fornire agli Stati una cornice di cooperazione tra le rispettive giurisdizioni, rispettando le differenti norme sostanziali e procedurali in materia concorsuale, dando certezza al commercio internazionale e agli investimenti ed assicurando il pari trattamento anche dei creditori stranieri, massimizzando il valore dell’attivo ed abbattendo i costi di procedura. Per giunta, sono state anche predisposte nel 2010 UNCITRAL le raccomandazioni per una disciplina di soft-law («Part three») attinente ai gruppi di imprese internazionali che si trovino in stato d’insolvenza, offrendo così ai legislatori dei vari Stati le direttrici per varare congrui testi di legge ad hoc. Ben 21 Stati - tra cui USA, Giappone, Regno Unito, Polonia, Slovenia e Serbia - hanno già fatto proprio il modello di legge uniforme dell’UNCITRAL, favorendo così il commercio internazionale e garantendo gli investitori stranieri. Come mai l’Italia non ha ancora adottato queste disposizioni? Certo sarebbe il caso di non indugiare più.
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