Penale

PENALE – Merce con marchi contraffatti, fede pubblica e falso grossolano.

merce contraffattaSe a Tizio viene sequestrata della merce, detenuta per la vendita, perché ritenuta dalla polizia giudiziaria frutto di contraffazione, è sostenibile che il falso non è punibile, perché all’evidenza grossolano?
Secondo la Suprema Corte il falso grossolano configura un’ipotesi di reato impossibile soltanto se è tale da “escludere erga omnes un’imitazione ingannevole”.
La grossolanità realizzerebbe, infatti, un’azione che non presenta il necessario grado di offensività previsto per il delitto di cui all’art. 474 c.p. e, pertanto, non risulterebbe punibile ex art. 49, co. 2, c.p.
Nel caso di specie, la S.C. ha statuito che per dimostrare la grossolanità non basta la descrizione delle “[...] modalità e [del]le condizioni di vendita, [del]le caratteristiche dei disegni, [del]la nazionalità del venditore, [del]il livello del prezzo”, dovendosi richiedere ai fini dell’esclusione del reato, che la grossolanità sia riconoscibile ictu oculi e che il falso sia originato da “[…] un’imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno” (Cass. Pen., Sez. II, n° 25073 del 03.06.2010; Cass. Pen., Sez. II, n° 518 del 15.11.2005; Cass. Pen., Sez. V, n° 3336 del 26.01.2000).

La S.C. aveva già precisato che il bene giuridico protetto dall’art. 474 c.p. è la pubblica fede, ovverosia “l’affidamento dei consociati nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione”, e che a nulla rileva - ai fini della consumazione del reato - l’effettivo inganno patito dal singolo.
Pacifica è quindi la sussunzione dell’art. 474 c.p. nella categoria dei reati di pericolo.
Nelle sue pronunce, la Cassazione non è però sempre stata lineare.
Contrariamente all’orientamento tradizionale, nel cui solco la Sent., n° 5215 del 03.02.2014 in questione, si pone in continuazione, in taluni casi ha desunto l’idoneità ingannatoria del prodotto contraffatto non solo dai requisiti che caratterizzano il marchio, ma anche da altri elementi di natura atipica. Così, la S.C. ha dato rilievo, ai fini della valutazione del grado di offensività della condotta, all’evidente scarsità qualitativa del prodotto, al prezzo eccessivamente basso, o alle condizioni di vendita, che avrebbero permesso all’acquirente di media esperienza di carpire la falsa provenienza del bene contraffatto (Cass. Pen., Sez. V, Sent., n° 2119 del 23.02.2000). A quest’orientamento minoritario, si è affiancato pure un indirizzo intermedio, che ha considerato utili, in termini di apporto causale, gli elementi atipici summenzionati (Cass. Pen., Sez. V, Sent., n° 14876 del 06.04.2009).
Tuttavia, l’orientamento più consolidato valuta l’offensività della condotta parametrandola alla lesione della fede pubblica, qualificando come irrilevanti le condotte accessorie: dovrà solo compiersi un’indagine sulla effettiva idoneità del marchio contraffatto a creare confusione nella collettività, tramite la comparazione degli elementi intrinseci di quest’ultimo, rispetto a quello originale.
In questo senso era già stato statuito (Cass. Pen., Sez. II, Sent., n° 45545 del 15.12.2005) che il falso è grossolano “ove il prodotto, per requisiti materiali intrinseci, sia tale da fare escludere l’efficienza causale originaria alla produzione dell’evento nei confronti non dello specifico acquirente, ma dell’intera collettività”.
In dottrina si ritiene che non sia punibile “[..] sia il falso che non può ingannare la fede pubblica per la sua grossolanità, sia il falso che non può ledere né mettere in pericolo gli interessi specifici tutelati dalla genuinità e veridicità dei mezzi di prova” (cfr. L. Delpino, F. Antolisei, G. Fiandaca, E. Musco).
Ai fini della configurazione dell’ipotesi di reato impossibile ex art. 49, co. 2, c.p., va adottato quale parametro un numero indistinto di soggetti ovvero l’intera collettività. Spetterà poi all’imputato l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza della situazione dedotta innanzi il giudice di merito, cioè che il prodotto contraffatto, per propri requisiti intrinseci, sia qualificabile come falso grossolano. Solo la dimostrazione della presenza di detti requisiti “esclude l’efficacia causale alla produzione dell’evento […]” del reato (così expressis verbis Cass. Pen., Sent., n° 45545 del 15.12.2005).
E l’analisi sarebbe da compiersi ex ante, ai fini di accertare la possibilità che il prodotto falso fosse concretamente riconducibile a quello del titolare del marchio.
Più recentemente, peraltro la S.C. ha espresso un orientamento diverso, determinando l’attitudine del prodotto falso a confondere mediante una valutazione successiva, da ricondursi al momento in cui l’oggetto verrà “utilizzato da parte di un numero indistinto di soggetti” (Cass. Pen., Sez. V, Sent., n° 33324 del 11.08.2008; e ancora, Cass. Pen., Sez. II, Sent., n° 22133 del 23.05.2013). Tale logica appare in sintonia con la tutela del bene protetto ex art. 474 c.p., ovvero la fede pubblica. In questo senso, la tutela prevista dall’ordinamento segue il prodotto per tutta la sua esistenza e la condotta di colui che metta in circolazione la merce contraffatta, ex art. 474, co. 2, c.p., farà riferimento ad una attività molto più ampia della sola messa in vendita, giustificandosi così la valutazione a posteriori dell’oggetto (si veda, Cass. Pen., Sez. V, Sent., n° 37579 del 09.10.2013).
La tesi, tuttavia, non può dirsi esente da critiche. Valutare un bene contraffatto solo nella sua “successiva” utilizzazione significa prevedere un vaglio più approfondito della falsità del prodotto. L’utilizzazione è sicuramente un metro valutativo più specifico della mera analisi ex ante. Di fatto, quest’ultima potrebbe far seguito ad un generico dato visivo (si pensi al caso di una persona che, guardando la vetrina di un negozio, veda la merce contraffatta ivi esposta): in casi simili si può ben ritenere che sia sufficiente una valutazione ex ante del falso, anche alla luce di quanto statuito dalla S.C. in materia. Gli espressi requisiti della macroscopicità e della ostentatezza, che caratterizzano il falso grossolano, devono inequivocabilmente apparire sin da subito, nel momento in cui vi è stato il primo “contatto” col prodotto contraffatto. La stessa Corte nomofilattica, inoltre, ha previsto che la grossolanità sia riconoscibile ictu oculi, confermando ulteriormente l’orientamento precedente. 

 

Cass. Pen., Sez. V, Sent. 24.10.2013/03.02.2014, n° 5215

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Gennaro Marasca, Presidente
Dott. Carlo Zaza, Consigliere
Dott. Anton Settembre, Rel. Consigliere
Dott. Paolo Micheli, Consigliere
Dott. Paolo Demarchi Albengo, Consigliere
ha pronunciato la seguente 

Sentenza

sul Ricorso proposto da N.B., nato il (omissis);
avverso la Sentenza n° 218/2010 della Corte d’Appello di Lecce del 19.11.2012;
visti gli atti, la Sentenza e il Ricorso;
udita in pubblica udienza del 24.10.2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Antonio Settembre;
udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, Dott. Oscar Cedrangolo, che ha concluso per l'inammissibilità del Ricorso.

Svolgimento del processo

1. Ricorre N.B. avverso la Sentenza della Corte di Appello di Lecce del 19.11.2012 che, a conferma di quella emessa dal locale Tribunale, lo condanna a pena di giustizia per il reato di cui all'art. 474 c.p., siccome sorpreso, il (omissis), mentre deteneva per la vendita 26 paia di occhiali da sole e 22 maglie con marchio di note griffe contraffatto (Armani, Dior, Lacoste, Richmond).
Il ricorrente lamenta la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione in ordine al reato di cui all'art. 474 c.p. Deduce che la scarsa qualità dei prodotti, le modalità della vendita (la merce era esposta per terra, su un lenzuolo), le caratteristiche dei disegni, l'assenza di etichette originali all'interno delle relative confezioni rendevano la contraffazione non punibile perché riconoscibile ictu oculi al consumatore medio, essendo tale da integrare il falso grossolano.
Si duole, poi, sotto il medesimo profilo, dell'assenza di prova in ordine alla registrazione dei marchi, che, aggiunge, deve essere data anche in relazione ai marchi internazionalmente noti (ma non per questo aventi validità generalizzata).
Infine, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto che, aggiunge, nell'ipotesi peggiore dovrebbe essere ricondotto alla previsione dell'art. 517 c.p., "poiché i disegni riprodotti, così come le diciture, richiamerebbero l'originale ma contengono nette differenze, ovvero particolari difformità che nettamente divergono rispetto all'originale". 

Motivi della decisione

Il Ricorso non merita accoglimento.
1.É infondato il motivo relativo alla dedotta grossolanità del falso. Si deve in proposito rilevare come la giurisprudenza di questa Sezione abbia già chiarito che l'ipotesi di reato prevista dall'art. 474 c.p., (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) è volta a tutelare, in via principale e diretta, non la libera determinazione dell'acquirente ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei consociati nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione; trattasi quindi di reato di pericolo, per la cui configurazione non è necessaria l'avvenuta realizzazione dell'inganno in occasione del singolo acquisto (Cass. Pen., Sez. VI, n° 49565 del 02.12.2009; Cass. Pen., Sez. II, 11.10.2000, rv. 217506; Cass. Pen., Sez. II, 02.10.2001, Fall., rv. 220236).
Questa Corte ha anche precisato che il reato previsto dall'art. 474 c.p. è configurabile qualora la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre in inganno i terzi, ingenerando confusione tra contrassegno e prodotti originali e quelli non autentici e quindi errore circa l'origine e la provenienza del prodotto. La contraffazione grossolana non punibile è soltanto quella che è riconoscibile ictu oculi, senza necessità di particolari indagini, e che si concreta in un'imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno (Cass. Pen., Sez. II, n° 25073 del 03.06.2010; Cass. Pen., Sez. II, n° 518 del 15.11.2005; Cass. Pen., Sez. V, n° 3336 del 26.01.2000).
Nel caso di specie la grossolanità di questo tipo è stata ricollegata, dal ricorrente, in maniera impropria, a fattori (quali le modalità e le condizioni della vendita, le caratteristiche dei disegni, la nazionalità del venditore, il livello del prezzo) del tutto irrilevanti ai fini che interessano, giacché non tiene conto che il prodotto con marchio contraffatto è destinato alla circolazione e quindi alla visione da parte di un numero indeterminato e indeterminabile di soggetti, rispetto ai quali (la contraffazione del marchio) conserva tutta la sua potenzialità offensiva. Invece, la grossolanità del falso, per escludere il reato, richiede l'esistenza di ulteriori elementi concreti e specifici, relativi al marchio in sé e al prodotto che questo identifica (sintomatici di un tale grado di imperfezione e incompletezza da escludere, erga omnes, una imitazione ingannevole), che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare - e non ha dimostrato - davanti al giudice del merito. Il primo motivo è pertanto infondato.

2. Infondato è anche il secondo motivo di Ricorso. Questa Corte ha già avuto modo di precisare, in relazione a fattispecie analoga, che l'affermazione di responsabilità per l'acquisto o la ricezione di beni con marchi contraffatti o alterati non richiede che sia provata l'avvenuta registrazione dei marchi, condizione essenziale per affermare l'esistenza del delitto presupposto, se si tratta di marchi di largo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle società produttrici (Cass. Pen., n° 22693 del 13.05.2008. La Corte ha precisato che, in tali casi, è onere difensivo la prova della dedotta mancanza di registrazione del marchio). Nel caso di specie, i Giudici del merito hanno accertato che si trattava di marchi (quali Armani, Dior, Lacoste, Richmond) di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle relative società produttrici, di tal che era onere di chi lo assumeva provare l'insussistenza della protezione del marchio.

3. Manifestamente infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso, giacché la "contraffazione" del marchio (vale a dire, la sua abusiva riproduzione con caratteristiche coincidenti con quelle del marchio vero) ricade sotto la previsione dell'art. 474 c.p., mentre l'art. 517 c.p., (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) ha per oggetto la tutela dell'ordine economico e richiede la semplice imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché detta imitazione sia idonea a trarre in inganno l'acquirente sull'origine, qualità o provenienza del prodotto da un determinato produttore (Cass. Pen., n° 31482 del 19.06.2007; Cass. Pen., n° 13322 del 25.03.2009; Cass. Pen., n° 9389 del 04.02.2013).

Il Ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M.

Rigetta il Ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24.10.2013.
Depositato in Cancelleria il 03.02.2014. 

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