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PENALE - Il cyberbullismo è reato?

Il cyberbullismo è reato? Articolo dell'avv. Salvatore Frattallone LL.M.

(da Fatti&Fattoidi.com, di Roberta Maresci, 18.12.2016)  

Quando il bullismo passa per il web diventa cyberbullismo o cyber mobbing: ma il risultato delle dinamiche tra vittima e carnefice non cambia. Anche se il cyberbullismo consiste nell’invio ripetuto di messaggi offensivi tramite sms, in chat o sui social per molestare una persona per un periodo che può essere più o meno lungo. E anche se i cyberbulli spesso sono persone che la vittima ha già conosciuto a scuola o nel proprio quartiere e che la offendono, minacciano, ricattano e diffamano, così determinando nella stessa conseguenze molto gravi, come la perdita della fiducia in se stessi, stati di ansia e depressione e, in casi-limite, addirittura il suicidio. In Italia il fenomeno sta dilagando. “I dati sono allarmanti” spiega l’Avvocato Salvatore Frattallone, penalista e LL.M., “secondo l’ultimo rapporto Istat, tra i ragazzi che usano il cellulare e internet,

il 5,9 % ha denunciato di aver subito ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, mail, chat o social network. Vittime, più di tutti, sono le ragazze: il 7,1% contro il 4,6% dei maschi. Siamo di fronte a una vera e propria epidemia silenziosa, che riguarda soprattutto ragazzi di età compresa fra i 14 e i 17 anni”. Tuttavia, il confine tra un comportamento che resta scherzoso e uno che è percepito come offensivo non è così netto: raramente i giovani si rendono conto delle conseguenze delle loro azioni nel momento in cui mettono in rete immagini offensive o le inviano agli amici. La scuola a prova di privacy”. Di pochi giorni fa è la pubblicazione de «La nuova guida del Garante per la protezione dei dati personali, per “insegnare la privacy e rispettarla a scuola», nel tentativo di responsabilizzare genitori, insegnanti e ragazzi al riguardo. Tentiamo di tracciare il punto della situazione. 

Avvocato, oltre ad offese e insulti quali altri sono i comportamenti messi in atto dai cyberbulli?

I comportamenti che possono essere oggetto di tale fenomeno sono i più disparati: fondamentale è, come ovvio, che le azioni in questione siano state attuate attraverso il mezzo di internet, che determina una rapida e dilagante diffusione della “notizia”. Il cyberbullismo può consistere in qualsivoglia attività di denigrazione, pressione, molestia, ricatto, o persino nel furto d’identità; è rilevante anche l’acquisizione e il trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni. Oltre al mezzo (internet) e alla condotta oggettiva deve però tenersi in debito conto anche e soprattutto lo scopo per cui tali azioni vengono poste in essere: queste ultime devono cioè essere connotate dalla volontà di isolare un minore, provocarne la sofferenza psicologica o anche la sua mera messa in ridicolo. Solo per fare un esempio, qualche anno fa dei ragazzini furono indagati dopo aver inserito in un blog accessibile a chiunque delle fotografie di una coetanea che la ritraevano all’interno della classe e mostranti il volto di questa inserita in un corpo di scimmia, accompagnandole peraltro da commenti denigratori (Cass. Pen., Sez. V, Sent. n° 23010, 06.02/28.05.2013). Altro comportamento diffuso è pure il “sexting”, neologismo utilizzato per indicare l’invio di messaggi, testi o immagini sessualmente espliciti, principalmente tramite lo smartphone, tablet o pc.

Quali sono i comportamenti che rappresentano un reato? 

L’esempio fatto poc’anzi è un caso di diffamazione, punibile ai sensi dell’art. 595 c.p.: tale reato è integrato tutte le volte in cui, comunicando con due o più persone, si offende l’altrui reputazione e quindi l’onore e il decoro della vittima. Ma i reati che interessano il fenomeno del cyberbullismo sono diversi: in taluni casi potrebbero configurarsi i reati di istigazione al suicidio oppure di atti persecutori, nella veste del cosiddetto “stalking informatico”. Potrebbero, in tali situazioni, essere consumati i reati di minacce, quello di sostituzione di persona e altri ancora.

In che momento il cyberbullo commette reato? 

Nel nostro ordinamento non esiste, forse ancora per poco, un reato specifico per il cyberbullismo. Allo stato attuale, dunque, occorrerà analizzare la condotta oggettiva, verificare la sussistenza dell’elemento soggettivo e valutare la verificazione dell’evento. Una volta inquadrato il reato configuratosi nel caso di specie, sarà possibile individuare il momento consumativo. Per il reato di diffamazione, ad esempio, che è reato istantaneo, la consumazione si realizzerà con la semplice, lesiva della reputazione, comunicazione con più persone. L’istigazione al suicidio si consuma invece, com’è immediato, dal compimento del suicidio o dal tentativo non andato a buon fine.

É la vittima che deve denunciare? E come? Dopo la denuncia cosa succede?

Per i reati perseguibili a querela di parte, è la vittima e quindi il minore a dover denunciare. In sua vece però, in quanto titolari della responsabilità genitoriale, potranno farlo anche la madre e/o il padre. Anzi, nella Sentenza su richiamata del 2013, la Cassazione ha precisato che non ha rilievo giuridico alcuno che il minore sia o meno a conoscenza del fatto illecito in suo danno, giacché in nessun caso la sua contraria volontà potrebbe prevalere sulla volontà del genitore orientata all’esercizio del diritto di querela: il genitore può denunciare anche se il minore nulla sa o si opporrebbe alla decisione di adire le Autorità.

É possibile chiedere anche un risarcimento di danni morali o biologici? In che caso?

Non in sede penale. Il procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni non consente infatti alle persone offese di chiedere il risarcimento del danno, costituendosi parte civile nel processo, come di regola invece avviene per i processi penali che interessano i maggiorenni.

Se il cyberbullo è un minore, cosa rischia e chi paga? 

Il minore rischia una condanna penale irrogata dal Tribunale per i minorenni, in ossequio alle regole dettate dal D.P.R. n° 448/1988. L’ordinamento italiano è uno dei pochi a prevedere delle norme speciali per gli imputati minorenni, con un trattamento di favore volto alla risocializzazione del giovane, nei confronti del quale è auspicabile una rieducazione più veloce e, nella maggior parte dei casi, definitiva. In questa prospettiva, solo per fare un esempio, è sempre possibile richiedere – ex art. 28 del Decreto – una messa alla prova del minore (per i maggiorenni ciò è consentito solo a determinate condizioni), e quindi una reintegrazione attraverso il positivo espletamento di lavori di pubblica utilità o iniziative simili. 

Passiamo alle molestie reali: se un ragazzo ne picchia un altro e l’aggressione viene ripresa con il telefonino, il terzo può essere citato in giudizio come complice? e il video è ammesso come prova? 

Questo genere di fenomeno si verifica anche nel cosiddetto “Knock out game”: si tratta di un “gioco” diffuso negli Stati Uniti, e che inizia a prendere piede anche in Italia, in cui l’unica regola è quella di avvicinare uno sconosciuto senza metterlo in allarme e stenderlo con un pugno. Metterlo knock out, appunto. E tutto questo mentre gli amici del picchiatore filmano tutto con il telefonino per poi postarlo su youtube o su altri social. Dal punto di vista giuridico, viene qui in rilievo l’istituto penale del concorso di persone. L’art. 110 c.p. punisce chiunque concorra alla commissione del reato. Tuttavia si distingue in dottrina e in giurisprudenza tra concorso e mera connivenza: quest’ultima consiste in un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato. Video-riprendere chi sta picchiando un’altra persona sembrerebbe rientrare in tale ultimo caso, ma non è poi così scontato. Per la Cassazione, infatti, anche la semplice presenza sul luogo dell’esecuzione del reato può essere sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa quando, palesando chiara adesione alla condotta dell’autore del fatto, sia servita a fornire all’agente lo stimolo all’azione e un maggiore senso di sicurezza (Cass. Pen., Sez. II, Sent. n° 50323, 22.10.2013).

Quando c’è bisogno dell’avvocato il danno è fatto: ci sono state pene esemplari per questi reati (in Italia o all’estero?)

Ad oggi, in Italia nessuna pena esemplare.

La proposta di legge approvata alla Camera ha suscitato molte polemiche. Secondo Lei che cosa non piace? 

Il disegno di legge inizialmente presentato dalla senatrice Elena Ferrara è stato oggetto di emendamenti, poi approvati, che ne hanno di fatto snaturato la portata. Ab origine, infatti, l’applicazione del provvedimento era prevista solo per i minorenni e aveva un’impostazione pedagogico-educativa e di prevenzione. Ora, invece, il provvedimento è stato esteso anche a tutti i maggiorenni ed è diventato prevalente l’aspetto repressivo e di oscuramento del web ad opera dei gestori dei siti internet e del Garante per la protezione dei dati personali. In sostanza, è stato perso di vista il vero obiettivo, con ricadute dunque sulla reale efficacia del provvedimento. Nel vano tentativo, forse, di dare un riscontro effettivo ai casi di grande eco mediatica dell’ultimo periodo – si pensi, al suicidio di Tiziana Cantone – il disegno legislativo è stato trasformato in uno strumento utilizzabile da chiunque per mettere in discussione la legittimità della presenza di un contenuto su internet.

Ecco Avvocato, Lei ha appena citato il caso Cantone. In tutti i casi in cui, a causa della non autorizzata diffusione di video-hard nella rete, una ragazza si suicidi, che cosa rischia chi li ha diffusi? È alto il rischio, come accaduto, dell’archiviazione?

Come accennato sopra, sono configurabili i reati di diffamazione e di istigazione al suicidio. Il primo è un reato procedibile a querela di parte e se la vittima non aveva denunciato prima della morte non vi sono gli estremi per dar vita al processo penale. Nel caso di Tiziana Cantone, infatti, la Procura di Napoli ha chiesto l’archiviazione nei confronti di quattro persone denunciate per diffamazione dalla stessa vittima subito dopo la diffusione sul web dei video hard che la ritraevano; era stata lei stessa però a ritrattare le accuse in un momento successivo: secondo il P.M. dunque non esisterebbero i presupposti per esercitare l’azione penale. Le indagini proseguono invece per il reato di istigazione al suicidio, disciplinato dall’art. 580 c.p. con la comminazione della pena della reclusione da 5 a 12 anni nell’ipotesi non aggravata. La norma punisce, si badi, chiunque determini un’altra persona al suicidio, ne rafforzi il proposito già preesistente ovvero ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione. 

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