Penale

PENALE - Diffida di pagamento e delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona ex art. 393 c.p.

intimazione di pagamento

La diffida dell’avvocato può assurgere a tentativo d'estorsione?

La diffida di un avvocato nei confronti della controparte, qualora presenti un contenuto apertamente minatorio, può integrare il reato di estorsione, anche solo tentata, unicamente nel caso in cui la gravità della minaccia abbia una portata tale da annullare la volontà del soggetto che la subisce. Viceversa, nel caso in cui le minacce, finalizzate a un'eventuale transazione, non raggiungano un tale effetto, verrà a configurarsi il meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Così precisa la sentenza n. 29585 dell’8 luglio 2019 della Seconda Sezione della Corte di Cassazione. Sono ravvisabili, peraltro, dei precedenti conformi (sul punto cfr. Cass. pen., Sez. II, 05.04.2017, n° 31725; id. 03.07.2018, n° 55137): la S.C., in particolare, ha avuto l'occasione di chiarire che una condotta di minaccia illecita realizzata da un legale al fine di tutelare l’interesse legittimo del proprio assistito nei confronti della controparte potrebbe integrare il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone, distinguendo lòa diversa ipotesi in cui  addirittura i possa configurare un'estorsione. Nella fattispecie,

era stato tratto a giudizio un legale, con l'imputazione di tentata estorsione, essendogli stato ascritto il fatto di inviato, adducendo il legittimo interesse del proprio assistito, delle diffide ad adempiere a controparte il cui dal contenuto risultava minatorio, poichè, oltre a prospettare l'ovvio radicamente dell'eventuale azione giudiziale a tutela della parte che aveva conferito l'incarico, asserita creditrice, era stato minacciato pure di screditarne l’immagine e la rivelazione di ulteriori fatti-reato e di ritenute violazioni fiscali. In assenza di vantaggio, al legale era stata perciò contestata la forma non consumata del delitto.
Mentre in primi grado aveva scagionato il legale, in sede d'impugnazione questi veniva condannato, sul presupposto che il contenuto delle diffide, sia pur fondate su un credito sussistente, avesse oltrepassato i confini del lecito, assurgendo a minaccia ingiusta. Nel giudizio di legittimità era stata domandata, fra l'altro.b la riqualificazione del fatto in ragion fattasi: per la precisione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone. La Corte nomofilattica ha deciso, quindi, per la suddetta derubricazione, sull'assunto che le minacce erano sì illecite, ma di gravità non tale da potersi configurare un'estorsione, ancorché tentata: l’intenzione dell'imputato di agire secondo legge per la tutela del diritto di credito obiettivamente ravvisabile in capo al suo cliente cossstituiva un'intimazione, insomma, ma non si poteva prescindere dalla legittimità della pretesa creditoria, da cui era scaturita la richiesta; al contempo, però, essa non aveva annientato la capacità di reazione della vittima, sino a costituirne una vera e propria coartazione, stante la non completa sopraffazione della vittima.
Quando, insomma, l’Avvocato agisce nell’interesse del proprio mandante, rimane estraneo alla sottesa controversia che concerne le parti, ma va considerato come mera parte tecnica in affiancamento alla parte sostanziale, il che giustifica il trattamento leviore in caso di contegno minatorio, come previsto dall'art. 393 c.p.
In riferimento alle pretese del tutto infondate, invero, con Sentenza n° 48733 sempre della Sez. II penale, (del 29.11/17.12.2012), peraltro la Corte di Cassazione aveva stabilito il seguente principio di diritto: integra gli estremi del reato di estorsione, e non quello di truffa, la minaccia di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l'agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto. Si riporta per estratto la prima delle decisioni su menzionatre e, di seguito, quest'ultima.

* * *

Sent. n. 29585, 08.07.2019
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CERVADORO Mirella - Presidente -
Dott. SGADARI Giuseppe - est. Consigliere -
Dott. PERROTTI Massimo - Consigliere -
Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere -
Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da: (omissis), nato a (omissis);
avverso la sentenza del 11/09/2017 della Corte di Appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione della causa svolta dal consigliere Giuseppe Sgadari;
udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Dott. FODARONI Giuseppina, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso;
udito il difensore, (omissis), per la parte civile (omissis), che si è associato alle richieste del Procuratore Generale depositando comparsa conclusionale e nota spese;
Avv. (omissis), in sostituzione dell'Avv. (omissis), che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo.
1. Con la Sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, emessa dal Tribunale di Bergamo il 13.10.2014, condannava il ricorrente alla pena di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile in relazione al reato di tentata estorsione.
2. La Corte riteneva che l'imputato, Avvocato e legale di fiducia della (omissis), attraverso delle lettere con le quali si chiedevano i corrispettivi per un contratto di appalto eseguito dalla propria assistita, avesse minacciato ingiustamente la committente, (omissis), di adire le vie legali per la tutela del credito, travalicando i limiti dell'esercizio legittimo del diritto ed anche dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rendendosi responsabile del reato di estorsione in quanto avrebbe paventato alla controparte azioni idonee a screditare l'immagine imprenditoriale della vittima, a rivelare la commissione da parte sua di reati commessi in altri contesti e violazioni di tipo fiscale che sarebbero emersi da minacciati accertamenti di polizia tributaria.
3. Ricorre per cassazione (omissis), deducendo:
1) violazione di legge e vizio di motivazione per non avere la Corte ritenuto che il fatto andasse diversamente qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, pur dandosi atto in sentenza che la condotta dell'imputato fosse motivata da "un presupposto fondato, quale l'esistenza di un credito", a nulla rilevando le modalità della pretesa posta in essere dal ricorrente, ma solo l'elemento intenzionale. Il ricorrente cita la giurisprudenza di legittimità a sostegno delle sue ragioni, riconoscendo l'esistenza di altro orientamento, tanto da chiedere, in subordine, la rimessione della questione alle Sezioni Unite di questa Corte;
2) vizio della motivazione in ordine alla gravità della condotta del ricorrente, costitutiva del reato di estorsione, posto che si sarebbe trattato solo di richieste avanzate tramite lettere spedite ai difensori della costituita parte civile, dal contenuto non talmente minaccioso da far ritenere sussistente un tentativo di estorsione anzichè il reato di cui all'art. 393 c.p., avendo, peraltro, la stessa Corte valutato debolmente la portata della condotta del ricorrente ai fini delle statuizioni civili.
Motivi.
Il ricorso è fondato.
1. Il Collegio intende ribadire l'approdo giurisprudenziale, particolarmente adattabile al caso in esame, secondo cui configura il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e non quello di estorsione, la condotta dell'avvocato che, nell'esercizio del proprio mandato professionale, persegua gli interessi del proprio cliente con condotte di minaccia nei confronti della controparte. Nella specie, l'imputato aveva inviato una missiva con richieste di rilevanti somme di denaro per chiudere la controversia, minacciando altrimenti denunce che avrebbero portato a misure cautelari nei confronti della controparte e del suo difensore (Sez. 2, n° 31725 del 05.04.2017, Rv. 271760-01).
2. Nel caso in esame, il ricorrente non contesta la sussistenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni - dando, dunque, per scontata la sussistenza di minacce illecite ad opera del ricorrente contenute nelle missive da lui spedite alla controparte - quanto, piuttosto, che tali minacce abbiano potuto addirittura travalicare l'illiceità propria del reato di cui all'art. 393 c.p., portando a ritenere configurabile un tentativo di estorsione. Tuttavia - data per scontata la sussistenza di un diritto legittimo della parte privata assistita legalmente dal ricorrente nei confronti della controparte (omissis), della qual cosa non ha dubitato la sentenza impugnata - il ricorrente ha ragione nel sostenere che la motivazione offerta dalla Corte di Appello è carente nel conferire una gravità tale alla minaccia da configurare l'estorsione tentata. Infatti, come pure si legge nella sentenza impugnata, le minacce rivolte dall'Avvocato alla controparte, nei termini sintetizzati nelle premesse in fatto pur deprecabili quanto si vuole e sicuramente illecite ex art. 393 c.p., erano comunque finalizzate ad una composizione della lite attraverso una transazione; un fine giuridico comunque rientrante, ex art. 1965 c.p., tra le forme di tutela del diritto vantato dalla parte difesa dal ricorrente, in quanto volto, come recita testualmente la norma richiamata, a "prevenire" una lite. Le modalità utilizzate si ponevano apertamente in linea con tale intenzione del ricorrente, espressamente rinvenibile nelle missive, non travalicando in forme così gravi di intimidazione da costituire una estorsione, tenuto conto della particolare natura dei rapporti esistenti tra le parti, della mancanza di condotte estranee al contenuto delle missive e della esistenza di un effettivo diritto tutelabile da parte del ricorrente.
3. La sentenza di legittimità citata dalla Corte di Appello, non fornisce elementi giuridici idonei a favore della tesi sostenuta dalla sentenza impugnata, lasciando aperta la questione (Sez. 6, Sentenza n° 11823 del 07.02.2017, Rv. 270024-01, secondo cui, i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza e minaccia alle persone e quello di estorsione si distinguono non già in relazione all'esistenza o meno di una legittima pretesa creditoria, bensì con riferimento alle modalità oggettive della richiesta, risultando integrato il delitto di estorsione anche quanto le condotte minacciose si manifestino in forme tali da trasformare una legittima richiesta di restituzione in un ingiusto profitto. Fattispecie in cui la Corte ha confermato la qualificazione della condotta quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rilevando che le minacce non avevano raggiunto la soglia di gravità necessaria per coartare la volontà del soggetto passivo). Mentre è utile ricordare - al fine di far emergere la non configurabilità di un tentativo di estorsione nella specie - che integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa o violenta che, estrinsecandosi in forme talmente aggressive da annichilire le capacità di reazione della vittima e trasformarla in mero strumento di soddisfazione delle pretese dell'autore, esorbita dal ragionevole intento di far valere un preteso diritto (Sez. 2, n° 55137 del 03.07.2018, Rv. 274469-01).
4. E' poi appena il caso di precisare, come è stato acutamente sottolineato nella motivazione della sentenza di legittimità prima citata (31725/2017), che il professionista che agisca nell'interesse di un cliente, non può considerarsi "estraneo" alla contesa che opponga il proprio patrocinato ad un terzo, e le pressioni che egli eserciti sulla controparte oltre i limiti della correttezza, superando la soglia del penalmente rilevante, non possono per sè essere considerate alla stregua di una intermediazione criminale che finisca per sovrapporsi al rapporto giuridico altrui nel perseguimento di autonomi interessi illeciti; l'avvocato è una parte tecnica che si affianca alla parte sostanziale della contesa, nella conclusiva unitarietà di una parte complessa. Ciò non consente di escludere che la condotta rientri in un caso di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in quanto l'avvocato sarebbe terzo estraneo e mirerebbe al conseguimento anche di un proprio profitto, così come sostenuto in alcune decisioni di legittimità (cfr. Sez. 5, n° 22003 del 07.03.2013, Rv. 25565101).
5. Tanto comporta che il fatto debba essere qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona, ex art. 393 c.p., nella forma tentata, posto che nessun risultato era stato raggiunto dall'agente, trattandosi di reato di evento (Sez. 6, n° 29260 del 17.05.2018, Rv. 27344401).
6. Dalla fondatezza del ricorso discende che deve essere dichiarata l'intervenuta prescrizione di tale reato, commesso fino al 31 agosto del 2010 (prescrizione in sette anni e sei mesi, maturata l'1 marzo del 2018, non risultando congrui periodi di sospensione).
7. Essendo maturata la prescrizione dopo la sentenza di secondo grado, restano salve le statuizioni civili, ex art. 578 c.p.p., tenuto conto che il ricorrente ha comunque commesso un reato che ha danneggiato la parte civile. Tuttavia, alla luce della minore gravità del fatto, siccome in questa sede diversamente qualificato rispetto alla fattispecie di tentata estorsione, l'entità del risarcimento del danno, equitativamente liquidato in via definitiva dalla Corte di Appello in € 10.000 per il solo danno morale riconosciuto, deve subire una riduzione, che presuppone un accertamento di fatto precluso al giudizio di legittimità e che dovrà essere effettuato, trattandosi di reato prescritto, dal giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà anche in relazione alle spese del presente grado relative alla parte civile.

P.Q.M.

Qualificato il fatto come tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni, annulla la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello in ordine alla quantificazione del risarcimento del danno in favore della parte civile. Spese al definitivo.
Così deciso in Roma, il 4 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2019

* * *
Sent. n. 48733, 29.11/17.12.2012
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COSENTINO Giuseppe M., Presidente
Dott. IANNELLI  Enzo, Consigliere
Dott. CASUCCI   Giuliano, Consigliere
Dott. TADDEI    Margherita B., Consigliere
Dott. RAGO      Geppino, Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:

Sentenza

su Ricorso proposto da: (omissis), nato il (omissis);
Avverso l'Ordinanza del 09.07.2012 del Tribunale di Genova;
Visti gli atti, l'Ordinanza ed il Ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito  il  Procuratore  Generale,  Dott. Antonio Gialanella, che ha concluso per l'inammissibilità.
Fatto
1. Con Ordinanza del 09.07.2012, il Tribunale del Riesame di Genova confermava l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. di Sanremo in data 12.06.2012, nei confronti di (omissis), titolare dell'impresa familiare (omissis), per i reati di estorsione e tentata estorsione. I fatti per i quali il ricorrente risulta indagato sono i seguenti.
Il prevenuto, dopo aver emesso false fatture recanti l'indicazione della realizzazione di lavori di manutenzione-pulizia per nulla o solo in minima parte effettuati, si recava presso studi legali ove prospettava il proprio intendimento di ottenere il pagamento delle fatture, così inducendo il professionista ad inviare all'apparente debitore una lettera raccomandata con la quale veniva richiesto il pagamento dell'importo indicato nel falso documento con la prospettazione, in caso di mancato pagamento, di "procedere secondo legge" o di esperire la procedura ingiuntiva ovvero richiedendo l'emissione di decreto ingiuntivo. Le descritte condotte, in un caso, andarono a buon fine in quanto una vittima, a titolo di transazione, corrispose somme non dovute, mentre, in altri casi, si arrestarono a livello di tentativo, perché le persone alle quali era stato richiesto il pagamento delle somme non dovute rifiutarono di pagare e si rivolsero alle Forze dell'Ordine ovvero si opposero al decreto ingiuntivo.
2. Avverso la suddetta Ordinanza, il prevenuto, a mezzo del proprio difensore, ha proposto Ricorso per Cassazione, deducendo l'erronea applicazione dell'art. 629 c.p. Il ricorrente ritiene che nessuna delle attività da lui compiute integrerebbero il reato di estorsione, non essendovi stata alcuna minaccia volta alla coartazione delle persone alle quali richiedeva del denaro non dovuto. Secondo (omissis) - diversamente da quanto sostenuto sia dal G.I.P. che dal Tribunale del Riesame - la prospettazione da parte di un legale di un procedimento secondo legge o la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo non costituirebbero una minaccia tale da integrare gli estremi dei reati di estorsione o di tentata estorsione contestatigli: infatti, la minaccia ed il danno paventato alle persone offese non potrebbero dirsi ingiusti e idonei ad ingenerare nelle stesse alcun timore, in quanto il soggetto passivo, se consapevole dell'infondatezza e dell'ingiustizia delle pretese, non potrebbe essere intimidito dalla mera intenzione, esplicitata da un legale, di agire in giudizio, ben potendo resistere nell'eventuale giudizio civile nel quale avrebbe potuto dimostrare l'illegittimità della pretesa creditoria. Il ricorrente, infine, conclude che, a tutto concedere, le proprie condotte andrebbero inquadrate sotto la fattispecie degli artt. 56 e 640 c.p.
Diritto
1. Il Ricorso è infondato, per le ragioni di seguito indicate.
2. In via di fatto, dall'impugnata ordinanza, risulta che (omissis) ha, in pratica, ammesso sostanzialmente l'addebito, avendo dichiarato che "ho fatto qualche piccolo lavoro presso le persone offese tuttavia ho di molto aumentato le fatture, anche aggiungendo lavori che non avevo mai fatto e questo per ottenere qualcosa di più" (cfr. pag. 7): infatti, il Ricorso non è tanto incentrato su questioni di fatto, quanto su una questione di diritto e cioè sulla configurabilità del contestato delitto di estorsione. Pertanto, la questione di diritto che il ricorrente ha sottoposto a questa Corte di legittimità può essere così enunciata: se la prospettazione ad apparenti debitori - in caso di mancato pagamento dell'importo richiesto ed indicato in un documento precedentemente falsificato - di "procedere secondo legge" o di esperire la procedura ingiuntiva ovvero la richiesta di emissione di decreto ingiuntivo sia da considerarsi minacciosa.
3. Come è noto, la minaccia necessaria per integrare gli estremi dell'estorsione (o della tentata estorsione) consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell'agente. Secondo la previsione normativa, la condotta minacciosa deve causare un doppio evento, ossia la coartazione della volontà della vittima e la disposizione patrimoniale. L'esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo - quali indubbiamente sono il concreto esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di tali iniziative - non presentano, di per sé, i caratteri della minaccia necessaria per l'astratta configurabilità del delitto di estorsione: infatti, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, le suddette condotte sono esclusivamente dirette alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente.
Tuttavia, se l'esercizio del diritto o la minaccia di esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l'iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante. Quest'ultima, poiché non trova alcuna giuridica giustificazione in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare. In questo senso si è già espressa questa Corte, avendo statuito che "in tema di estorsione, anche la minaccia di esercitare un diritto - come l'esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva - può costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare l'elemento materiale del reato quando tale minaccia sia finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore, non giuridicamente tutelato": Cass. 16618/2003, rv. 224399. Dunque, non ogni prospettazione alla controparte o a persona terza di un'azione giudiziaria deve essere considerata come minaccia: è tale solo quella che è finalizzata a conseguire un profitto ulteriore ed ingiusto, in quanto il discrimine tra legittimo esercizio di un diritto o la minaccia di esercitarlo è da individuarsi proprio nell'ingiustizia del profitto che si intende realizzare.
In tale prospettiva, è indubbio che una richiesta del tutto sproporzionata ed eccessiva della quale l'agente sia consapevole, possa essere sintomatica dell'intenzione di conseguire un ingiusto profitto, come ha statuito questa Corte di legittimità secondo la quale alla richiesta di una somma di denaro a titolo di risarcimento di danni, normalmente legittima, assume il carattere di illecito e integra gli estremi del delitto, tentato o consumato, di estorsione quando sia del tutto sproporzionata alla entità del diritto leso e sia fatta con riserva implicita o esplicita di far valere le proprie ragioni nei modi di legge, ove la somma non venga integralmente pagata, sì da considerarsi una vera minaccia al fine di conseguire una ingiusta locupletazione": Cass. 273/1970, rv. 115339; Cass. 7380/1986, rv. 173383 ha ribadito che "la minaccia idonea a configurare il delitto di estorsione può assumere forme ben diverse, come quella della prospettazione di azioni giudiziarie, che si traduce in un male ingiusto nel caso di pretestuosità della richiesta, o come quella della denunzia penale, che si rivela ingiusta quando la utilità in cui si concreta non sia dovuta e di ciò l'agente sia consapevole". Pertanto, si può affermare che il concreto esercizio di un'azione esecutiva oppure la prospettazione di convenire in giudizio il soggetto passivo o di un'azione esecutiva costituiscano una minaccia e, dunque, una illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di estorsione alle due seguenti condizioni:
a) la minaccia dev'essere finalizzata al conseguimento di un profitto al quale non si abbia diritto;
b) l'agente dev'essere consapevole dell'illegittimità o della pretestuosità della propria condotta, anche se l'illegittima pretesa venga fatta valere in modo apparentemente legale.
4. Sulla base di quanto illustrato, deve, quindi, disattendersi la tesi difensiva, che, da un lato, esclude che l'esercizio di un'azione giudiziaria o la sua prospettazione, ancorché infondate, possano considerarsi, di per sé, un male, e, dall'altro, fa dipendere il verificarsi del male ingiusto non già dalla volontà dell'agente, bensì dal comportamento della vittima che non ritenga di rivolgersi al giudice (civile) per tutelare i propri interessi. Entrambi i profili presuppongono che il processo sia la sede in cui le ragioni della parte trovino necessariamente una tutela, sicché la persona offesa non avrebbe nulla da temere dal contraddicono processuale. Sennonché, tale concezione del processo, confligge con le concrete dinamiche processuali che possono rendere qualsiasi vicenda giudiziaria aleatoria - secondo il vecchio brocardo "habent sua sidera lite" - oltre al fatto, di comune esperienza, che il processo, di per sé, come intuì un grande giurista, costituisce una pena (e, quindi, un danno) sia in termini economici che di stress emotivo. Deve, pertanto, ritenersi che l'ingiustificato coinvolgimento in un'azione legale, già avviata o anche solo prospettata, costituisce - per chiunque sia consapevole dell'ingiustizia della pretesa - una minaccia. Sul punto, va, quindi, data continuità a quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "il manifestato proposito di ricorrere al giudice può integrare il reato di estorsione, ove ricorrano particolari circostanze, da valutarsi caso per caso in relazione alla qualità delle persone ed alle modalità con le quali il proposito stesso è manifestato. Si è in presenza di un comportamento minaccioso, quando il ricorso alla giustizia è prospettato come mezzo per il raggiungimento di uno scopo che sia estraneo al fine che è proprio dell'azione che si intende intraprendere: in tal caso non sussiste alternativa che di soggiacere alla ingiusta pretesa o subire le conseguenze dannose dell'azione giudiziaria": Cass. 5664/1974, rv. 88648). D'altra parte, è fuorviante ritenere che la vittima della illegittima richiesta di pagamento abbia l'onere di coltivare un'azione giudiziaria o di opporsi ad essa o ad un'azione esecutiva, al fine di far accertare l'illegittimità e la pretestuosità dell'iniziativa avversaria: così ragionando - e cioè imputando alla volontà della persona offesa l'eventuale verificarsi del male ingiusto dalla stessa patito - si compirebbe un'indebita inversione di prospettiva, essendo essa vittima di intimidazione e di coartazione della volontà, e non già la "causa dei propri mali".
5. Quanto detto consente di disattendere anche la subordinata testi difensiva secondo la quale i fatti addebitati al ricorrente configurerebbero l'ipotesi della truffa e della tentata truffa.
Infatti, si sarebbe potuta astrattamente ipotizzare il delitto di cui all'art. 640 c.p. solo qualora la condotta dell'odierno ricorrente si fosse arrestata alla falsificazione delle fatture ed alla richiesta di pagamento delle stesse agli apparenti debitori. Tuttavia, poiché il ricorrente non si è limitato a porre in essere una condotta truffaldina (richiesta di un pagamento non dovuto), ma ha adottato una strategia indubbiamente intimidatoria, consistente nella minaccia azioni legali, generiche o anche specifiche, oppure, in certi casi, perfino nell'inizio di un'azione esecutiva, la fattispecie è stata correttamente qualificata come estorsione.
6. Nel respingere il Ricorso, può, quindi, enunciarsi il seguente principio di diritto: "integra gli estremi del reato di estorsione e non quello di truffa la minaccia di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l'agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto". Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il Ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si provveda a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p.
Così deciso in Roma, il 29.11.2012.
Depositato in Cancelleria il 17.12.2012

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